martedì 12 dicembre 2006

Wanted: Il carattere d'acciaio di Mark Millar

Odio Mark Millar.

Sì, lo so. Questo è lo stesso inizio usato da Fabio Licari per la sua prefazione a Wanted, pubblicato questa settimana nella collana Dark Side, edita dalla Gazzetta dello Sport. Lo aveva già usato in un precedente volume della collana firmato da Millar, quello dedicato a Vampirella. La mia, quindi, è una citazione, ma presenta una sostanziale differenza dal punto di vista di Fabio Licari.

Io lo odio davvero.

Sono consapevole che questa confessione mi renderà impopolare presso una larga fetta di lettori di fumetti, soprattutto i più giovani. Non posso farci nulla, la penso in questo modo, per cui – se le mie aspettative non saranno contraddette – non mi resterà che accettare il crucifige. Prima di ascoltare la condanna, però, vorrei dire la mia nero su bianco, e spiegare una volta per tutte le vere ragioni della mia antipatia nei confronti di questo autore che proprio con Wanted ha espresso al massimo la sua personalità. L’invettiva non sarà breve, e questo servirà di certo a scremare la potenziale schiera di interlocutori.

Una piccola digressione necessaria. Vorrei ricordare un noto spot pubblicitario che negli ultimi mesi ci ha invitato ad acquistare una possente automobile allo scopo di sviluppare un “carattere d’acciaio”. La trama dello spot presenta una situazione tipica. Il classico suicida indeciso, in piedi su un cornicione, scruta il vuoto che metterà fine alla sua esistenza. Una donna in carriera (il look e il piglio, almeno, ci suggeriscono che è così) nota il tapino dalla strada e si precipita nell'appartamento per fermarlo. Fatto rientrare il suicida, lo fa subito uscire dalla finestra che dà sull’altro lato del palazzo, su un cornicione altrettanto pernicioso. Quando la “signora” scende di nuovo in strada, sollevata e soddisfatta, comprendiamo le vere ragioni del suo gesto. L’uomo rischiava di sfracellarsi sulla magnifica auto della donna, parcheggiata proprio sotto il cornicione. La finestra cui lei lo ha condotto, invece, gli permetterà di completare il suo gesto disperato senza nuocerle minimamente. Il “carattere d’acciaio”, declamato dallo slogan come una qualità altamente apprezzabile, consisterebbe quindi nel saper difendere la propria proprietà privata senza lasciarsi turbare né tantomeno coinvolgere dalle tragedie altrui. Un spot altamente educativo che riassume il succo dell’attuale trend del fumetto supereroistico.
Trend, di cui Mark Millar è il principale alfiere.

Dopo i supereroi revisionisti, tutti discendenti del grande Watchmen di Alan Moore, è iniziata una nuova era per questo genere del fumetto popolare. Il tono cupo e realistico delle storie è andato privilegiando sempre più gli aspetti oscuri dei personaggi un tempo presentati come eroi secondo un’ottica manichea. O erano buoni (e quindi eroi) o erano malvagi (e quindi erano il nemico). Dopo Watchmen, Il ritorno del Cavaliere Oscuro e altre pietre miliari che hanno ridisegnato il modo di raccontare i personaggi in tuta, siamo stati velocemente traghettati sulla sponda opposta. Tutto era iniziato ponendo delle domande scomode, mostrando limiti e contraddizioni al fine di rendere verosimili quei personaggi ormai non più credibili. Già da qualche tempo, però, il confine è stato superato, e gli eroi (intesi qui nel senso di “protagonisti”) hanno finito con l’arenarsi in una caratterizzazione che è ancora più manichea e schematica del modello precedente. Se prima l’eroe era senza macchia, oggi è una carogna integrale. L’industria dell’immagine ha stabilito che viviamo nell’era del figo emergente a discapito dei poveri fessi idealisti. Il carattere d’acciaio ha perciò trionfato su quasi tutte le serie a fumetti più recenti. Addio, caro Uomo Ragno, tormentato paladino della giustizia. Hai fatto il tuo tempo, e alcuni giovanissimi più che “eroe”, oggi, ti chiamano “pipparolo” e “perdente”.

I tempi sono cambiati: il supereroe, per essere apprezzato dalle nuove generazioni, deve essere cinico, corrotto, magari anche ottuso. Deve possibilmente coltivare un gran bel vizio, essere spietato e incline al tradimento. E’ il nuovo che avanza, ma è anche un totale, noioso rovescio delle icone del secolo scorso. Se l’eroe puro oggi può sembrarci ipocrita, l’eroe corrotto è una macchietta. Se negli anni sessanta Stan Lee e soci avevano lanciato i “supereroi con superproblemi”, oggi spopolano quelli che potremmo definire i “supereroi con i supercontrocazzi”. Uniforme cucita su misura per gli adolescenti del nuovo millennio, destinati a crescere in una società dove gli unici ideali celebrati dai media sono il culto dell’immagine e il successo a tutti i costi.

Mark Millar ha conquistato la sua attuale popolarità scrivendo su numerose testate. Si è fatto un nome con Authority, serie sulla quale è subentrato a Warren Ellis, estremizzandone i temi anarchici e sociali. Peccato che molto presto si sia abbandonato anche alle smargiassate più gratuite, costruendo intorno ad Apollo e Midnighter (celebri per essere la prima coppia di supereroi gay del fumetto) una serie di gag di grana grossa, destinate al pubblico eterosessuale più tradizionalista. In Ultimates, riscrittura dei personaggi classici dei Vendicatori (grosso successo di pubblico negli ultimi anni), ha inacidito uno dopo l’altro le icone più nobili del pantheon supereroistico, seguendo un programma di incarognimento che, dopo il divertimento dei primissimi numeri, è diventato prevedibile quanto volgare. Ma Millar è veramente un genio. Anzi, è il Verbo dell’industria del fumetto popolare moderno che si è fatto uomo. Normale che non sbagli un colpo agli occhi dei suoi fans. Difficile resistere alle tentazioni del conformismo più cool. E difficile anche dimenticare le sue performance. Come la famosa splash page in cui Capitan America, in risposta all’alieno che gli intima di arrendersi, indica la “A” stampata sulla sua maschera gridando: «Credi che questa lettera significhi Francia?!!!»

A suo tempo, non sono stati pochi i lettori che hanno interpretato questa tavola come un’accusa di vigliaccheria a quella Francia che non aveva voluto prendere parte al conflitto in Iraq. Qualcuno ha voluto giustificare l’episodio con la caratterizzazione fanatica che Millar stava dando di Capitan America. Altri, in modo davvero infelice, hanno voluto rammentare a quanti s’erano detti turbati che “Millar è inglese, non americano”. Come se Tony Blair e George W. Bush non fossero entrati a braccetto in questa insensata avventura bellica. Si è parlato anche dell’orientamento politico di Millar, uomo di sinistra e quindi automaticamente innocente da qualsiasi intento filoamericano. Questo trascurando il principio sacrosanto per cui un autore andrebbe valutato esclusivamente per quello che scrive. Qualcuno obietta dicendo che quelle di Millar sono iperbole, volte a criticare il cinismo e la miseria di cui parla. Beh, può anche darsi. Ma se è così, diciamocelo, ragazzi: sta raccontando da anni la stessa storia. Dite di no? Insomma, Millar può contare su un’inesauribile riserva di difensori. Piace. Forse perché le sue trasgressioni sono il prodotto di una griglia editoriale sempre più omologata, e le opere migliori, nel sentire comune, sono quelle che ci raccontano quel che già stiamo pensando. Importa poco che la “corruzione degli eroi “ abbia già fatto la muffa. Sono in pochi a notare l’attuale rifrittura di espedienti e personaggi che non vedevamo su un fumetto di supereroi dalla fine della guerra fredda. Siamo stati portati culturalmente indietro di anni, e per farlo si ricorre a dei simboli molto elementari. Ma ancora è come se non ce ne accorgessimo, e percepiamo prodotti reazionari fino al buco del culo come una grande novità.

Ma veniamo a Wanted. La miniserie che lo staff responsabile di Dark Sid(come ci informa la prefazione di Fabio Licari) era incerta se pubblicare, in quanto “avrebbe potuto turbare i lettori più sensibili”. Personalmente, penso che “Wanted” sia veramente il capolavoro di Mark Millar. O almeno l’opera in cui più che in altre è riuscito a sintetizzare la tendenza (non solo fumettistica) di cui si è trovato a essere il portavoce.
Sono sempre stato contrario a ogni forma di censura, e di questo non mi pento. Wanted è un fumetto che si deve leggere. L’importante è che lo spirito del lettore resti critico e non si lasci ubriacare dagli elogi, francamente esagerati, che imbellettano questa nuova edizione. Non perché Wanted sia un fumetto poco curato o perché non possa comunque risultare divertente se letto con lo giusto stato d’animo. Ma perché è l’emblema di una deriva fumettistica che (con buona pace di Diabolik e dei suoi epigoni) non fa che sguazzare nel torbido di un’idea ormai stagnante da anni.
Con Wanted, l’orefice Millar sfoggia la sua gemma perfetta. Un mondo dove regna solo malvagità, egocentrismo e un’esaltazione che, più che liberatoria, fa pensare al delirio di un adolescente arrapato sotto cocaina. Sì, perché i presupposti psicologici di Wanted sono tagliati con l’accetta, e la stessa struttura del racconto presenta dei buchi notevoli.

Partiamo dal titolo Wanted, particolarmente fuorviante. La parola Wanted vorrebbe evocare l’idea dei fuorilegge, e suggerisce che una volta aperto il fumetto seguiremo le gesta dei criminali, osservando il mondo dei “super” dal loro – pressoché inedito – punto di vista. Ma è un inganno. Quelli di cui leggeremo la storia non possono nemmeno definirsi supercriminali. Non ci sono i presupposti drammatici. I Supercriminali sono tali in quanto si contrappongono ai Supereroi. E in un mondo dove gli eroi sono stati definitivamente cancellati dalla loro controparte malvagia, queste definizioni perdono di senso. Non c’è la caccia al fuorilegge, non c’è il confronto tra due mentalità divergenti, due stili di vita in contrasto. Tutte cose che il titolo Wanted annuncia in modo illusorio.

In realtà Wanted è un bizzarro cocktail tra 1984 di George Orwell e Le 120 giornate di Sodoma del Marchese De Sade. Giuro. Vi sembra incredibile? Vediamo un po’.

Wanted narra di un sistema autoritario (formato da caste di superesseri senza scrupoli) che si spartisce la torta su scala mondiale. Una dittatura occulta che manipola le percezioni e i ricordi della gente, modifica la storia e controlla ogni singolo meccanismo amministrativo. In primis, la giustizia. Il clima è quello del romanzo antiutopistico, dove i comuni cittadini sono solo bestiame senza speranza di riscatto. Tipico affresco apocalittico e deprimente nella sua gelida ineluttabilità.

Abbiamo poi dei personaggi dotati di superpoteri che si sono una buona volta liberati degli eroi. Il mondo intero, adesso, è il loro parco giochi. E perciò uccidono, violentano, torturano, distruggono, si ubriacano, scopano e fanno quel che cazzo gli pare alla faccia di qualunque morale. E naturalmente finiscono con l’annoiarsi. Né più né meno dei libertini (e dei lettori) di De Sade. Esemplare, in questo senso, il percorso di formazione seguito dal protagonista. Un programma scolastico degno della “Filosofia nel Boudoir”. Il futuro superfigo è preso a pugni finché non impara a reagire e viene fatto scopare fino allo sfinimento con una “bad girl” disegnata sulle fome della Catwoman di Halle Berry (quindi più una porca che una gatta). Ci si chiede se dovrà diventare un supercriminale o semplicemente un debosciato? Anche in questo segmento di storia si attinge abbondantemente a un repertorio di fantasie da adolescente frustrato. Siamo sempre sicuri che il povero Uomo Ragno sia quel pipparolo di cui parlavamo? A me non sembrava poi tanto male.

I supereroi, allora, non ci sono più. Ma i supercriminali che cavolo vogliono? Il mondo? No, ce l’hanno già. La ricchezza? Sono tutti ricchi sfondati. Infatti, neanche rubano più. Al massimo ammazzano qualcuno per il puro gusto di farlo impunemente. E poi, che se ne fanno del denaro in un mondo dove possono prendere tutto quello che vogliono? Ma se questi superstronzi sono l’unica forma di super rimasta al mondo, che cazzo gli facciamo fare? Beh, si ricorre all’espediente delle dimensioni alternative. In cerca di avventure, o di prestigio o altre ricchezze (non si capisce!), i nostri antieroi si concedono delle escursioni in dimensioni parallele dove i vigilanti mascherati esistono ancora. Non che quest’aspetto del racconto sia approfondito più di tanto. E infatti ci chiediamo a che diavolo serve.

Dunque, siccome stiamo parlando pur sempre di superesseri, ed è d’obbligo lo scontro, non resta che un’unica, trita soluzione. I cattivi si contendono il controllo della piazza e iniziano a farsi fuori a vicenda. Ma che originalità, signor Millar. No, pardon. Dimenticavo, lei innova tutto quello che fa. E del resto c’è un esercito di imberbi bulli pronti a portarla in trionfo pur di dimostrare di avere anche loro un “carattere d’acciaio”.

Lo stesso Millar annaspa quando mostra la crisi del protagonista. Davanti all’ennesima abbuffata di violenza gratuita (perpetrata con l’unico scopo di appagare una pulsione sadica), l’antieroe entra brevemente in crisi. Tanto potere, tanta lussuria e assoluta mancanza di confronto svuotarebbero l’esistenza di chiunque. E allora subentrano la depressione e il bisogno di qualcosa di più. Peccato che proprio quel contenuto che avrebbe potuto rendere Wanted realmente interessante sia stato soltanto sfiorato da Millar. In verità, avrebbe dovuto essere l’argomento principale: che cazzo faccio in un mondo in cui non ci sono più veri obbiettivi?

Qualcosa di simile Millar la presenta nel finale, quando il protagonista afferma (fingendo) di voler rinunciare al suo manto di supervitaiolo senza scopo. Ma la crisi si rivela solo uno sberleffo, una secchiata d’acqua su un corpo tormentato con l’elettricità giusto per fargli patire di più lo shock. E tutto si dimostra speculare con la scena che apre il fumetto, quando un personaggio, mentre si prepara a far sesso con due giovanotti, dice: «Io non sono gay. Ma faccio il gay un anno sì e uno no per fami venire più voglia di donna».

Millar finge dunque di donare barlumi di umanità al suo protagonista affinché risulti ancora più disturbante la sua non-caratterizzazione di manichino supercattivo in un mondo senza scopo.

Se Garth Ennis ha esaurito la sua forza provocatrice perdendosi in una deriva di vomito, sangue e luridumi a discapito di un racconto equilibrato, Mark Millar ha raffinato progressivamente il suo manifesto del Maschio Moderno (è la nuova definizione del supereroe?) amorale e fascinosamente egoista. Per questo Wanted è un prodotto particolarmente omologato e commerciale. La sua trasgressione è liofilizzata, al servizio di logiche industriali che oggi vendono fumetti alla maniera di un capo d’abbigliamento sexy con la promessa che ti renderà irresistibile. O come un’automobile di lusso, che meriterai solo se diventerai spietato. Una volta capito il meccanismo non rimane nulla. Tranne una sensazione di inaridimento, i cui sintomi principali sono l’annichilimento dei valori e la celebrazione del cinismo. Millar stesso svela il trucco nella pagina finale del suo racconto, ricordando ai lettori che nel mondo di Wanted i super ti inducono a credere che esistono solo nei fumetti. Invece esistono davvero. Controllano la tua realtà, ti dicono a che cosa credere e te lo mettono nel culo.

Il punto è che Mark Millar riesce a far gridare «Che bello!» anche al più omofobo.

Succede anche troppo spesso di sentire censori improvvisati tuonare contro opere underground colpevoli di mescolare il sesso a violenze che non hanno niente da invidiare a quelle di tante altre pubblicazioni blasonate. Per questo non invito a disertare Wanted. No, tutto il contrario. Wanted è importante in quanto prodotto definitivo di una tendenza fumettistica (e non solo) che conduce a un totale appiattimento delle idee, del concetto di umanità. E’ l’esempio ben realizzato di quanto il conformismo possa mascherarsi da trasgressione.

Ed è per questo che andrebbe letto. Va conosciuto. Meditato. Se ci riuscite, criticato.


[Articolo di Filippo Messina]






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