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venerdì 1 luglio 2022

Ms Marvel: ti conosco, mascherina...

 


Ormai dovremmo conoscerle.

Le miniserie Marvel targate Disney+, intendo.

Una confezione in genere accattivante, molti mezzi, attori in gamba e un copione prevedibile, lineare, spesso mal scritto, che conduce a una conclusione modesta se non deludente.

Non è oro, ma neppure tutto cacca. Incazzarsi e fare le pulci a un prodotto scadente, o che non piace, oggi fa parte del grande gioco dei social. Si parla per parlare. Anche di quello che non interessa. O non interessa più. Solo per esserci, per esistere, per fare sentire la propria voce.

Personalmente, inizio a trovare eccessivo questo gioco al massacro. E' vero, “Moon Knight” l'ho trovato particolarmente brutto. Insulso, confuso. Una forzatura che sacrificava sull'altare del commercio uno spunto potenzialmente interessante e la performance di un attore del calibro di Oscar Isaac (sabotata da una sceneggiatura indecente, e quindi resa inutile).

C'è chi riesce ad apprezzare comunque questo circo colorato, fatto di computer grafica, di girotondi di citazioni fumettistiche, botti, luci e poco altro. E va bene così. Ognuno si svaghi come può, e goda di quello che gradisce. Non è accanirci contro questi prodotti che ci renderà persone migliori.



Quando, qualche mese fa, scrissi sul mio profilo che stavo rimanendo molto deluso da “Moon Knight” e che riconoscevo che i titoli Marvel avevano, forse definitivamente, smesso di considerarmi parte del loro target, qualcuno si affrettò a dirmi di evitare come la peste l'imminente “Ms. Marvel”, giacché un prodotto a misura di teenagers sarebbe stato di sicuro indigesto per un boomer come me.

Beh, tra i tanti fenomeni della rete e della sua gestione della cultura pop, c'è anche il ragionare a compartimenti stagni. Pare che un prodotto pensato per i giovani, che ha per protagonisti adolescenti e tratta tematiche relative al mondo giovanile, causi l'orticaria agli spettatori “vecchi” come il crocifisso ai vampiri secondo tradizione. Ok, millenial!


Voglio svelarvi un segreto di Pulcinella. Ci sono centinaia di grandi storie, romanzesche, cinematografiche, che hanno per protagonisti dei ragazzi o addirittura dei bambini, a volte calate profondamente nel mondo infantile, ma di caratura talmente universale da essere amate anche dalle persone adulte. O dai vecchi boomer, se preferiamo. L'occhio della gioventù è stato spesso adottato per osservare temi complessi, come la guerra, le crisi sociali, e narrato come il primo approccio umano a un mondo in divenire, in cui tutti, nessuno escluso, inevitabilmente crescono e infine invecchiano. Insomma, la questione delle storie (film, serie TV) “teen” è una cazzata inerente al marketing e quello che conta davvero è la qualità della scrittura e quanto si ha da dire.

E' vero, “Ms. Marvel” è un prodotto che fa della gioventù e della leggerezza un tratto distintivo, ma non è solo questo. E' una miniserie che, con tutti i suoi limiti fisiologici, si presenta in qualche modo come nuova, aprendo a una fetta di protagonisti (la comunità dei pakistani statunitensi di religione musulmana) finora vista raramente su schermo in un racconto del genere (non in un prodotto occidentale, almeno). Propone, insomma, un punto di vista inedito per una storia di supereroi, e lo fa con un certa freschezza, puntando sulle differenze etniche e su un cast di attori simpatici, a partire da Iman Vellani, canadese di origine pakistana, nella parte di Kamala Khan.


Qualcosa di inusuale, che in prima battuta adatta bene il personaggio dei fumetti nato nel 2013 sugli albi Marvel, nel periodo in cui la stirpe degli Inumani aveva assunto un ruolo centrale rivelando che tra i comuni cittadini c'erano tanti soggetti dormienti appartenenti alla loro razza. Kamala, nei fumetti, è per l'appunto una di questi, cui circostanze fortuite attivano i poteri fino a quel momento nascosti. La serie Disney+, costretta a glissare sul concetto Inumano per varie ragioni, sposta il retaggio della protagonista in un'altra direzione, attingendo a un differente parterre di personaggi marvelliani: i Clandestine, famiglia evolutasi dall'unione di un essere umano con un djinn. Ma queste digressioni hanno poca importanza. Quel che conta, parlando di Kamala e della sua versione dal vivo, è soprattutto il contesto, la scoperta e la sua relazione con lo scenario di provenienza. Qualcosa che permette al lettore-spettatore di avvicinarsi a realtà percepite ancora da alcuni come distanti, e di farlo in termini giocosi.



Diciamo, dunque, che “Ms Marvel”, considerato come “oggetto” prima ancora che come miniserie, riesce con la sua particolare estetica a suscitare empatia e comunica un'emozione positiva. Almeno è così per me, che vedo nell'inclusione mediatica un passo importante per la crescita morale di tutti, che amo la varietà e non disdegno le cronache di coming of age. Il bambino dentro questo boomer si incanta a guardare la meravigliosa famiglia di Kamala, invidiandola a tratti, e sognando di averne una simile al di là delle differenze culturali (che volete, invecchiando si diventa sentimentali!).

Sì, “Ms Marvel” fa... tenerezza. Suscita simpatia il candore di Iman Vellani, bellezza pacioccona fuori dai consueti canoni, e affascina tutto il suo habitat, fatto di tradizioni esotiche, commistioni occidentali, uso delle nuove tecnologie e del linguaggio giovanile. Un ponte tra i mondi che diventa tematico (metafora semplicistica, ma proprio per questo immediatamente riconoscibile) con l'evolversi dell'avventura, la rivelazione degli antagonisti e delle loro reali motivazioni.



Questi sono gli elementi che collocano “Ms Marvel” parecchie spanne sopra l'Egitto liofilizzato di“Moon Knight”, prodotto sotto tanti aspetti arido, e gli permetteranno di mantenere la posizione conquistata a prescindere dal suo finale e dalle fisiologiche pecche che di episodio in episodio vanno venendo a galla in modo inesorabile. Perché parliamo pur sempre di una serie Marvel Disney+, un giocattolo prodotto in una catena di montaggio standardizzata, che difficilmente potrà differenziarsi in modo sostanziale dai suoi omologhi.

Dopo gli elogi potremmo elencare i difetti, e ne troveremmo una quantità industriale. Ma ne vale la pena? Sono esattamente gli stessi di ogni singola miniserie Marvel uscita sulla piattaforma streaming. Una ricetta che prevede la presentazione di un eroe, la sua prova di competenza e la sua consacrazione. Una frettolosa introduzione degli antagonisti, in genere ridotti a sagome di cartone da abbattere per poter arrivare da un punto A a un punto B, e tanta faciloneria che liquida in un istante la più benevola sospensione dell'incredulità. Difetti che – come di consueto – crescono a ogni puntata, privando le atmosfere iniziali di quella brezza piacevole che c'era parso di sentire sulla fronte per arrivare sudati, stanchi e un po' delusi a un traguardo scontato, goffo e quindi indigesto.



Tutto questo è vero. “Ms Marvel”, pur distinguendosi nelle sue prime battute come un titolo fresco e dal grande potenziale, non sfugge alle dinamiche cui siamo abituati. La verità, però, è che non aveva mai avuto nessuna speranza di riuscirci. E forse non ci ha provato neppure. Perché avrebbe dovuto, dopotutto? Le caramelle industriali sono quello che sono. Possono essere dure o morbide, alla frutta o impregnate di liquore, ma restano caramelle e non diventeranno mai spiedini di tonno alla griglia, per quanto noi si possa avere voglia di assaporarli.
Per il Marvel Cinematic Universe, non è neppure un problema quanto una connotazione naturale. Una rotta sulla quale stanno veleggiando tanto i titoli cinematografici che quelli destinati alla piattaforma streaming. Il giro di boa è avvenuto ed è stato consegnato alla storia. L'universo condiviso si è compattato, la sorpresa esaurita, la luna di miele conclusa, e adesso è giunto il momento di affrontare il quotidiano, a volte tedioso, della vita matrimoniale. La Marvel è riuscita a traghettare al cinema le stesse dinamiche dei fumetti. Il ping pong narrativo da una serie all'altra, i crossover e i grandi eventi affollati di personaggi. Le miniserie Disney+ arrivano dopo che la polvere della deflagrazione principale si è posata e ci presentano uno scenario che dovremmo conoscere, o se non altro che non dovrebbe coglierci impreparati.


La logica narrativa dei fumetti di supereroi, che piaccia o meno, è sotto gli occhi di tutti. A volte un autore particolarmente estroso può offrire qualche guizzo, ma si tratta di eccezioni, perché la norma è ben altra. Un universo di esseri con poteri strani, sempre più numerosi, le cui vicende intrecciandosi diventano confuse e contraddittorie. Racconti i cui i meccanismi si logorano in fretta, facendosi ripetitivi, semplicistici, superficiali. Un modello di intrattenimento dal fiato corto che nella confezione delle miniserie targate Disney+ mostra tutti i suoi limiti fisiologici. Una produzione bulimica di giocattoli da mettere in vetrina, una musica già sentita che non cambia se aggiungi un violino o un maranzano. Sono i supereroi, bellezza! Ti sono piaciuti, ti sei innamorato? Benissimo. Ora convivici, e guarda come sono al mattino, quando ti svegli accanto a loro, e li vedi con la bavetta all'angolo della bocca, senza trucco, spettinati e con gli occhi cisposi.



Scherzi a parte, quel che intendo dire è che analizzare severamente questi prodotti sta diventando noioso. Poco fa li ho paragonati a generi alimentari, e come questi possono essere più o meno gradevoli al palato, ma alcuni loro aspetti rimarranno immutabili. La stessa cosa attende i titoli cinematografici del Marvel Cinematic Universe. Anzi, è già cominciata. Si chiama... consuetudine.


L'amore che strappa i capelli è ormai perduto, cantava Fabrizio De Andrè. Non resta che qualche svogliata carezza. E un po' di tenerezza. Non è poi così male, dai. L'importante è andare avanti. Vedere Kamala Khan indossare una mascherina che non nasconde niente, proprio come Zorro nella storica serie TV (anche quella targata Disney) che ha accompagnato noi boomer per tanto tempo. Quella mascherina che oggi nessuno accetta più perché – che cavolo! – si vede benissimo che sei Diego o Kamala... ma mi prendi per il culo?! Eppure è tornata. E' là, è semplice, banale, simbolica. Significa che sei speciale, che sei un eroe e il protagonista di un'avventura. Sono archetipi, amabili a volte proprio per la loro essenzialità. Per un po' sono riusciti a mimetizzarsi, a fingersi grandi e tronfi grazie a montagne di soldi e a furbe campagne promozionali, ma alla fine hanno gettato la maschera. Indossandola di nuovo. Paradossale vero?

Basta così, allora. Divertiamoci come possiamo. Ognuno prenda dal vassoio il suo dolce preferito. Nessuno lo giudicherà. Cerchiamo solo di essere onnivori, e assaggiare di tutto. E' così che si cresce sani e forti. E se la storia dell'India, il dramma della Partizione, le grandi tribolazioni di un popolo, e - perché no? - anche i superpoteri, continuano a stuzzicare la vostra curiosità, c'è un notevole romanzo che vi racconta tutto questo. Uno di quelli che piacciono a noi boomer. Sì, ci sono anche i supereroi, e sono fichissimi, giuro. Lo ha scritto Salman Rushdie, si intitola “I figli della Mezzanotte”. E per qualche strana ragione sono sicuro che Kamala Khan lo ha letto e lo adora.



martedì 19 aprile 2022

Le Fate Ignoranti: la Serie


Vista la prima puntata de "Le Fate Ignoranti", espansione in forma seriale del film di Ferzan Özpetek del 2001, curata dallo stesso regista dell'originale e ora disponibile nella sua prima stagione come Star Original sulla piattaforma Disney +. A distanza di vent'anni, Özpetek rinarra la sua storia e il suo personale elogio della famiglia intesa come realtà allargata. Un episodio non basta per valutare la qualità dell'insieme, ma a lasciarmi perplesso è l'incipit. Se è evidente l'intenzione di arricchire il tutto con ulteriori sottotrame (del resto, in questo caso, stiamo parlando di una serie), a scricchiolare è la scelta delle premesse di questa nuova forma di narrazione.


Tutto è fedele al prototipo cinematografico, ma a cambiare è il punto di vista dei personaggi. Per cominciare, avrei fatto volentieri a meno di un io narrante non necessario (che per di più ti anticipa snodi importanti della trama), e non posso fare a meno di pensare che sarebbe stato meglio collocare più avanti la descrizione dell'incontro tra Massimo e Michele, magari in opportuni flashback che seguissero una cronologia interpolata. La shockante scoperta di Antonia, che apprende della vita segreta del marito dopo la sua morte, e i singoli dettagli svelati poco per volta nel film del 2001, qui sono presentati allo spettatore immediatamente nella loro interezza. Pertanto, nelle puntate successive, seguiremo le rivelazioni di Antonia da spettatori avvertiti, cosa che impoverisce l'immedesimazione con la protagonista e il suo progressivo immergersi in una realtà per lei completamente nuova. Viene, insomma, meno il crescendo drammatico del racconto originale, in cui il punto di vista di Antonia e del pubblico era lo stesso. Uno sfrondamento di twist narrativi sacrificati alla rappresentazione di retroscena pensati per arricchire le caratterizzazioni, ma che posti all'inizio del racconto ne smorzano il crescendo.

La confezione generale sembra simpatica, e continuerò a guardarlo per vedere come evolve. Ma il nuovo incipit, a mio parere, è molto discutibile. E' un remake esteso, ok. Ma il sacrificio di determinati sviluppi per me è un errore. Come quando sentiamo dire che la trilogia prequel di Star Wars andrebbe vista per prima. Cosa sbagliatissima, in quanto ucciderebbe ogni colpo di scena di quella classica rendendola di fatto piatta (un Darth Vader di cui conosci già vita morte e miracoli, non ha lo stesso impatto).
Per il resto, sono possibilista, e darò una chance alle puntate successive.

mercoledì 3 marzo 2021

Paranormal: dall'Egitto con... terrore


«Se la mente ti fa dei brutti scherzi... Faglieli anche tu!»

"Paranormal" è una serie Netflix egiziana a tema soprannaturale, tratta da una serie di romanzi, molto popolari in patria, scritti da Ahmed Khaled Tawfik. La serie è partita in sordina, ma grazie a un discreto passaparola sta pian piano conquistando una discreta fetta di pubblico. All'estero pare essere andata molto bene, e già si discute se confermarla per una seconda stagione. Nel panorama delle serie TV (o streaming che dir si voglia), dominato decisamente dalla cultura anglofona, "Paranormal" è una proposta davvero bizzarra. Innanzitutto per la sua ambientazione, discretamente diversa da quelle cui siamo abituati, e per il modo di intendere il soprannaturale, il misterioso e l'horror, qui rappresentato riferendosi, volta per volta, a leggende popolari in Egitto, spesso mutuate anche dalla cultura greca. Il plot di "Paranormal" si fonda molto sulla caratterizzazione del suo protagonista, il dottor Refaat Ismail. Personaggio che più antieroico non si può. Medico razionalista schivo, misantropo, nevrotico, il cui mal di vivere ha origine, però, in un trauma infantile legato a qualcosa di tuttora inspiegabile. Esperienza che farà da perno all'intera serie e alle avventure, apparentemente indipendenti, ma in realtà collegate da un sottile filo esoterico, che sconvolgeranno la vita del dottore e di tutta la sua famiglia.


"Paranormal" è quindi un racconto di fantasmi, di magia e di mitologia, con sprazzi horror e una curiosa alternanza tra i toni del dramma e quelli della commedia. L'attore Ahmed Amin, che interpreta Refaat, infatti, è noto in patria per essere soprattutto un comico. Ma il suo personaggio si arricchirà di più strati di episodio in episodio, così come l'avventura si farà sempre più nera e inquietante.
Una piccola, interessante sorpresa, quindi. E' probabile che molti storceranno il naso per la povertà degli effetti visivi (non se ne può più, gente. Seguite il cuore delle storie, è importante anche quello). Eppure "Paranormal" è una perla da scoprire tra le tante proposte, fatte con lo stampino, dal colosso dello streaming. Umorismo nero, paura, personaggi ben caratterizzati. E la costruzione di una mitologia interna che, se la serie sarà confermata per nuove stagioni, promette di crescere ulteriormente. Il mondo è grande. Le storie possono essere raccontate in molti modi diversi, in contesti molto variegati. E "Paranormal" è un ottimo biglietto da visita. Auguriamoci che a questo esperimento (a mio parere riuscito) ne seguano altri altrettanto interessanti.

lunedì 21 dicembre 2020

The New Mutants: Nuovi mutanti... Anzi, vecchiotti

 


«L'ho visto ieri. E' davvero molto brutto. Indifendibile!»

Quando senti queste parola da una persona che ha fatto del cinema la sua professione, blogger e podcaster più che in gamba, e persona che hai imparato a stimare, le tue aspettative scendono veramente ai minimi storici. Certo, c'è quella vocina. Quella che dice che... Ok, lei è brava, è preparata, però... Ci sono state anche alcune volte in cui vi siete trovati in disaccordo. Qualcosa che a lei è piaciuto, mentre tu non riesci proprio a mandarlo giù. E poi qualcosa che invece tu adori, laddove lei trova e schiaccia pulci che tu non riesci a vedere neanche se ti sforzi. Quindi... insomma! Magari è una di quelle volte. Diamo un'occhiata a questo The New Mutants”. Non è detto che il film non ti possa se non altro intrattenere...

Beh, scordatelo. Aveva ragione lei. Da vendere. “Indifendibile” era la parola giusta.

Che qualcosa non andasse era nell'aria già da tempo. Il progetto su un film dedicato ai Nuovi Mutanti, le nuove leve del franchise X-Men, già a loro volta un piccolo classico nell'ambito della lunga e complessa epopea mutante di casa Marvel, era entrato in produzione nel 2017, ben tre anni fa. Si parlava addirittura di una trilogia. Come se fosse una sorpresa. Oggi se produci un film di intrattenimento devi puntare alla serialità, avere l'occhio lungo, e promettere narrazioni di grande respiro. Promettere, però, non significa mantenere. E l'occhio lungo dei proposito commerciali spesso inciampa nelle gambe corte di un modello ormai spremuto fino all'osso, nella giusta incertezza dettata dalla precarietà dei diritti sui personaggi e da una creatività ormai esaurita per quanto riguarda le storie di supereroi. Nelle intenzioni della Fox (oggi 20th Century Studios) e del regista Josh Boone (che firma la sceneggiatura insieme a Knate Lee) la trilogia sarebbe dovuta procedere sotto il titolo "Growing Pains" (Dolori di crescita). C'è di più, Boone voleva fare di "New Mutants" un film del terrore, dove i poteri mutanti potessero diventare metafora di paure adolescenziali e incertezza del domani. Qualcosa che più che ambizioso puzzava già di vecchio solo a parlarne, e forse anche un pochino arrogante.


"
Legion", pregevole serial televisivo iniziato nel 2017 e anch'esso ispirato alle serie mutanti Marvel, con le sue atmosfere da incubo e i suoi personaggi surreali, aveva già conquistato questa frontiera, e fare di meglio era una bella sfida. Inoltre, il film del 2019 "Freaks!" di Adam Stain e Zach Lipovsky, con la sua umiltà di mezzi e una scrittura non banale, aveva dimostrato di poter parlare degli stessi temi in modi alternativi e affascinanti. Più nuovi di questi “Nuovi Mutanti” sicuramente.

Tralasciando i ripetuti rinvii, le riprese aggiuntive e tutti quegli incidenti di percorso che gridavano a gran voce che in questo film ormai non ci credeva quasi più nessuno, il risultato finale è davvero imbarazzante. Non è neppure la povertà tecnica del film, considerato che un titolo indipendente come il già citato “Freaks!” riesce a essere grande con delle buone idee piazzate nel posto giusto. Il problema imperdonabile di “The New Mutants” è la scrittura. Particolarmente svogliata, con dialoghi che bucano i timpani. Stereotipati da far paura più di qualunqu ripresa aggiuntiva volta a rendere “più simile a un horror” l'ennesimo, frettoloso filmetto supereroistico. Sì, frettoloso, nonostante la lunghissima gestazione asinina. In definitiva, definire “televisivo” il film di Josh Boone sarebbe ancora un complimento. E' difficile trovare la parola giusta. E' come la compulsione a grattare un prurito insistente, che sta lì a tormentarti, e senti di doverlo eliminare a costo di strapparti la pelle e lasciare una ferita sanguinante. Pensare che tutto, per la non più esistente Fox (dopo l'acquisizione da parte della Disney), era iniziato nel 2000 con i primi due “X-Men” di Bryan Singer, oggi risulta sconfortante. E in fondo, si intuisce, produzione e regista lo sapevano pure. Dai, un accanimento terapeutico di anni, una fugace uscita e poi una velocissima distribuzione in home video, allegato a riviste popolari nelle edicole. Fa addirittua provare un po' di tenerezza, e rimorso all'idea di sparare sulla croce rossa.

Ma quei dialoghi, Dio buono! Quei dialoghi!

Le intenzioni sembrano essere quelle di confezionare un thriller da camera. Ma quegli scambi di battute (forse prese in prestito da una collezione di fotoromanzi degli anni 80) non solo presentano relazioni e dinamiche assolutamente telefonate, ma pongono la pietra tombale su uno script dove la fantasia è un cadavere che i vermi hanno già digerito da un pezzo. Il peccato più grande è che qualche (vaga) ideuzza che avrebbe potuto rendere il film almeno un pochino simpatico per i veri fans c'era. Alcuni inside joke intriganti, la riscrittura di un noto personaggio di secondo piano, il disvelamento graduale dei poteri dei giovani protagonisti. Tutto, però, è gestito talmente male da fare incazzare anche il più indulgente lettore delle saghe mutanti. Anzi, più sei preparato sui fumetti e meno potrai goderti il film. Non per sterili bizze da fan tradito, ma per l'assoluta piattezza della trasposizione, cosa che ti fa prevedere ogni singolo passo dei personaggi con il risultato di non aspettare nulla se non la fine delle tue sofferenze. Molto presto ci viene ricordato che in questa dimensione narrativa gli X-Men esistono e sono famosi. Ok, perfetto, i vip sono dietro i paraventi. Ma qualche sforzo di logica in più sembrava brutto? Ci si potrebbe chiedere com'è possibile che un gruppo di giovani mutanti inesperti dai poteri potenzialmente pericolosi siano affidati a una struttura dove sembra esserci un'unica scienziata-custode. Rinunciate, la risposta non esiste. Dobbiamo accontentarci del fatto che si chiami Cecilia Reyes, e che è una vecchia conoscenza di noi lettori. E purtroppo non è l'unico punto debole del film.


Basta, infatti, conoscere le caratteristiche di un certo personaggio e del suo background fumettistico perché l'intera dinamica del racconto sia scoperta nel giro di un minuto, bruciando il climax prima ancora che incominci e sprofondando tutto in una galleria del già visto. E sì, perché mentre “New Mutants” stava ancora cuocendo a fuoco lento, nei cinema usciva
“IT” di Andrès Muschietti, e qualcuno si faceva venire pessime idee.

Maisie Williams come Wolfsbane sarebbe andata pure bene. Parliamo di un personaggio che soffre il peso di un'opprimente morale religiosa e convive con una mutazione che la rende affine a una belva, una furia primitiva incatenata da una repressione culturale lacerante. Non mi crea nessun problema la scelta di renderla protagonista di un romance omosessuale. Ci mancherebbe. Quello che trovo contraddittoria è la sua sicurezza, fin troppo serena nel gestire il rapporto con l'amata considerate le premesse castranti. Il suo alter ego licantropico avrebbe dovuto essere espressione di pulsioni sentimentali e sessuali che lottano per liberarsi dai condizionamenti di una vita trascorsa all'insegna della repressione. Invece tutto risulta buttato a caso, senza un vero ordine. Il fatto, poi, che la regia scelga di suggerire il suo orientamento sessuale mostrandola mentre assiste rapita a una scena di bacio lesbo in un celebre show televisivo, è semplicemente irritante e nemico della buona scrittura. Anya Taylor-Joy come Illyana è forse quella che rende di più. Ma è tutto da attribuire al suo naturale carisma e non al modo in cui la sua parte è stata scritta. Non si capisce nemmeno come funzionano i suoi poteri. E in effetti, la sua storia non sarebbe stata facile da riassumere neppure per uno bravo.

Non una delusione, in verità. Solo un senso di spreco e di confusione. Ma soprattutto di tristezza. Tristezza per un film nato zoppo, e definitivamente stroncato da ripetuti rimandi che ne hanno solo prolungato l'agonia. Triste per il suo titolo, che contiene la parola “Nuovi”, posta sulla confezione di un prodotto scaduto e ormai, aimé, immangiabile.











venerdì 1 febbraio 2019

L'immortale Hulk [di Al Ewing e Joe Bennet]


Il dottor Bruce Banner è tornato. Anzi, è risorto. E con lui l'incredibile Hulk. Meglio. L'immortale Hulk. Protagonista di una nuova serie che sta spopolando, donando al gigante verde di casa Marvel una nuova primavera. Ma stavolta, accanto ai raggi gamma è di casa l'orrore, e un'ulteriore lettura su bene e male che potrebbe portare ovunque. Ripercorriamo i passi del mostro atomico e le sue varie incarnazioni fino a questo suo ultimo (per ora) inquietante ritorno.

lunedì 17 dicembre 2018

Stella di Mare [di Giulio Macaione]


Qualcuno ha avvistato degli strani pesci nuotare al largo di Cefalù, cittadina balneare siciliana. Stefano non riesce a dare una direzione alla sua vita, mentre aspetta il ritorno di Marina, l'amore della sua vita, che una volta gli ha sussurrato un segreto all'orecchio. Le sirene esistono? E cosa vogliono dagli esseri umani. Qualcun'altro le cerca, come Stefano. Le teme, le odia. O vede in loro il ricordo di qualcosa che non riesce a lasciarsi alle spalle... Un romanzo grafico che parla il linguaggio delle onde, delle speranze e delle ossessioni umane. Nota: La canzone "Je connais des bateaux" nasce come omaggio al cantautore e poeta belga Jaques Brel, e ne riprende lo stile. In realtà è stata scritta dalla cantautrice francese Marie Annick Retif (in arte Mannik) e pubblicata per la prima volta sull'album "Le temps de l'amour (Mannick chante Brel, Ferrat, Reggiani...)". Disco che raggruppa omaggi intesi in varie forme, e il cui titolo fuorviante ha contribuito a diffondere l'ennesima attribuzione erronea, in questo caso allo stesso Brel. La mia attenzione filologica, di norma più precisa, ha subito un ritardo, e con questo video contribuisco dunque a perpetuare questo errore. Putroppo me ne sono accorto a video già caricato.

giovedì 23 agosto 2018

Fantastic Four: un nuovo numero #1


La prima famiglia Marvel ritorna dopo un periodo di letargo. Molte aspettative e un cast di autori collaudato. Siamo solo all'inizio, ma certe cose non cambiano mai. 
«Io ti osservo, Marvel! Io ti OSSERVO!»

lunedì 20 agosto 2018

Les Incidents de la Nuit [di David B.]


Un fumetto sui libri e sui librai. Sulle letture, sulle librerie e i mondi che possono aprirci. Sulle storie, sui misteri che ammantano città e persone. David B. autore de "Il grande male" ci narra una saga esoterica e poetica, in cui le idee più intriganti, gli incontri più particolari, avvengono... di notte. Un video con cui torno a parlare di fumetto d'autore e grandi metafore, nona arte e alta letteratura. Per gli sbadigli (forse) di tanti e per un tubo (si spera) meno standardizzato.

martedì 14 agosto 2018

"The End? L'inferno fuori" di Daniele Misischia



The End? L'inferno fuori” dell'esordiente Daniele Misischia è un film italiano di genere. Ok. Partiamo da questo dato scontato. E cioè che dopo un lungo silenzio, qualcuno in terra italica torna a percorrere quei sentieri dell'immaginario perturbante che nel nostro cinema è stato consegnato alla storia da nomi del calibro di Dario Argento e Lucio Fulci (ma prima ancora arrivò Mario Bava), soprattutto negli anni 70 e in parte negli 80. Tempi eroici in cui dire “di genere” aveva una valenza diversa da quella odierna. Principalmente dispregiativa. E in cui venivano prodotte pellicole di una genialità artigianale che spesso sarebbero state rivalutate solo dopo un lungo e colpevole atteggiamento di sufficienza culturale. Il film di Misischia (esordiente alla regia sul grande schermo, ma già rodato alla scuderia dei Manetti Bros) subisce l'ennesima angheria di essere distribuito a Ferragosto, per di più insieme a blockbuster con i quali la partita al botteghino è impari in partenza. E proprio per questo, pur con tutte le sue imperfezioni, è un film che si dovrebbe scoprire, godere e valorizzare. Sempre che – elemento necessario – siate cinefili e soprattutto amiate l'horror. O quel tono di sufficienza, molto anni 70, potrebbe tornare a mordervi come gli zombi di cui stiamo per parlare. Sì, perchè il film di Daniele Misischia si basa tutto su un'idea e sulla tecnica per fare di un limite virtù. E sono sforzi che bisogna sapere apprezzare.

The End? L'inferno fuori” è un film horror, dunque. Anzi, uno zombi-movie, di quelli che ormai fanno etichetta a sé. Ma è anche un esercizio di stile che combina più sottogeneri, tutti ascrivibili alla categoria più ampia del thriller. Il film vive inteamente nel suo spunto di partenza. Un apocalisse zombi (o di infetti furiosi e cannibali, ormai non importa più). Un uomo intrappolato in uno spazio angusto. Una serie di eventi terrificanti che si succedono al di fuori, e di cui c'è dato scoprire solo il punto di vista del protagonista. Quello offerto dalla finestra ricavata dalle ante semiaperte di un ascensore bloccato tra due piani. Rifugio e nello stesso tempo strumento di tortura, che porta lo spettatore a chiedersi dove sarebbe effettivamente meglio trovarsi? Se in trappola con il protagonista o fuori, alla mercé di un'orda di zombi famelici. Se in fuga là dove si può essere sbranati a ogni angolo o rinchiusi dove con molta probabilità si farà la fine del topo.

Potremmo definire questo sottogenere, un “punto di vista relativo”. Una narrazione classica ridotta alla visione soggettiva e parziale di un personaggio defilato. Un po' come nel film “Cloverfield”, dove la classica invasione del mostro gigante che mette a ferro e fuoco una città è raccontata attraverso gli occhi di un pugno di cittadini ignari di quanto sta succedendo, quasi venisse data voce alle comparse che si solito si limitano a correre urlando. Inevitabile è anche pensare aBuried”, film interamente ambientato nel chiuso di una cassa dove un uomo, sepolto vivo, cerca di darsi aiuto con un telefono e pochi altri arnesi. Il tutto collocato nello scenario ormai canonizzato dell'epidemia zombesca, in cui l'appassionato di horror sa perfettamente che cosa sta succedendo, ma dove l'ansia e il senso dello spettacolo è fornito dal crescendo di consapevolezza, terrore e reazione, dell'uomo intrappolato in uno spazio che ne limita i movimenti e la comprensione dei fatti. C'è poi quell'elemento che risale addirittura al teatro del Grand Guignol e agli orrori suggeriti più che mostrati. Sempre attraverso il telefono, come nel classico “Au telephone del drammaturgo francese André De Lorde, in cui un uomo in viaggio, attraverso l'apparecchio telefonico appena installato nelle case del primo novecento, ascolta impotente i suoni che descrivono l'assassinio della sua famiglia.

Il cinema di zombi, a partire dal suo capostipite romeriano, “La notte dei morti viventi”, nasce da subito come cinema della costrizione. Racconto d'assedio, dove l'inferno fuori è catalizzatore di discordia e orrori interni, secondo l'idea infernale immaginata da Jean Paul Sartre in “Porta Chiusa”. Qui l'assedio riguarda un singolo e il catalizzatore della paura non sono tanto gli zombi, quanto l'ignoranza di cosa succede fuori, e gli inesorabili sviluppi della catastrofe che si rivelano in dettagli mostrati dapprima con piccoli squarci di mondo esterno, e poi con una progressiva penetrazione dell'orrore all'interno. Se nella trilogia di George Romero gli zombi assediavano l'ordine costituito, la famiglia, l'istituzione, la società dei consumi, le forze dell'ordine e alla fine dichiaratamente il capitalismo, in “The End?” si scatenano all'interno di un complesso aziendale e tengono emblematicamente in ostaggio un imprenditore cinico e dispotico. Potremmo definirla una miniatura dei topos romeriani, dove sia il luogo dell'assedio (una casa, un ipermercato, un bunker... qui lo spazio angusto di un ascensore) e i totem da abbattere (qui riassunti in un unico personaggio simbolo) sono felicemente concentrati con un ottimo uso del ritmo e dello spazio scenico volutamente ridotto.


Allessandro Roja, volto della serie televisiva “Romanzo criminale” è funzionale al suo personaggio e alla lenta evoluzione (anche quella simbolica che affronterà). La performance non è forse memorabile, ma non necessita di esserlo in quanto il film vive di attese, suggestioni e vampate di terrore che l'interprete è in grado di reggere. Più incisivo è il giovane Claudio Camilli, che riempie lo schermo con la sua mole e il suo carisma non appena entra in scena, ed è il perno di alcuni dei momenti più intensi della pellicola. I comprimari, la maggior parte dei quali appaiono solo di sfuggita, e la moglie del protagonista (Carolina Crescentini, presente solo come voce al telefono) sono veicolo di tutti quei cliché che lo spettatore si aspetta, e che fanno parte del lavoro di attenta miniatura che la regia offre a un pubblico scafato, ma in grado di apprezzare la tecnica del racconto.
In definitiva, “The End? L'inferno fuori” è un riuscito, piacevole giocattolo per mettere paura. Senza esagerazioni, è un'opera prima da promuovere per la forma e la capacità di osare. Una variazione su un tema ormai abusato che trova i suoi punti di forza nella sottrazione anziché nell'eccesso. Un giocattolo che riesce persino a spaventare in più di una scena là dove pellicole mainstream hanno ormai rinunciato, oppure falliscono nel più frustrante dei ja vu. E se dovrà esserci un ritorno al cinema di genere italiano, magari possiamo considerare proprio il film di Daniele Misischia il punto da cui ripartire.

venerdì 8 giugno 2018

Vieni fuori... Immortal Hulk!



L'uomo, nel complesso, è meno buono di quanto immagina o vorrebbe essere.”

Con questa citazione di Carl G. Jung si apre il primo numero della nuova serie Marvel intitolata “Immortal Hulk”. L'immortale Hulk, che va ad aggiungersi a una collezione già numerosa di aggettivi che nel corso dei decenni hanno preceduto il nome del gigante verde: Incredibile, Selvaggio, Indistruttibile... Persino “Fichissimo” (in inglese, Totally Awsome). E sono solo aggettivi di testata, che a contare gli appellativi del Golia di smeraldo ci sarebbe da confondersi.

Il personaggio di Hulk è cambiato tante volte per continuare gattopardescamente a essere sempre se stesso. Gli Hulk più o meno lucidi o intelligenti, per quanto gradevoli da leggere (soprattutto quando al timone delle storie c'era qualcuno come Peter David), cedevano puntualmente la scena al ritorno dell'elemento più archetipico. Hulk è simbolo di ciò che lo crea all'inizio della sua avventura: un'arma devastante, una bomba, una potenza che non può essere contenuta, la collera irrazionale dell'essere umano, la sua tendenza a cedere sempre e comunque alla violenza e alla distruzione. In parte Frankestein (sia creatura che creatore), in parte Jekill-Hyde. Hulk ha sempre avuto delle parentele con la narrativa del terrore, e non a caso in principio, a causare la sua metamorfosi non erano gli sbalzi di umore, ma semplicemente il cadere della notte. Hulk si manifestava con le tenebre, e la sua fronte (un tempo) era alta quanto quella della maschera di Boris Karloff nel film che lo rese celebre.

Hulk, nella persona del suo alter ego Bruce Banner, è morto parecchie volte. E sempre rocambolescamente resuscitato, come da copione supereroistico dove il decesso è simile a una brutta influenza, fastidiosa, persistente, ma che prima o poi passerà. Non c'era dunque niente di scioccante nel vedere Banner morire durante il (evitabilissimo) evento Civil War II. Ucciso da una freccia scoccata dall'arciere Occhio di Falco, istruito da Banner stesso affinché mettesse fine alla minaccia del mostro verde qualora le cose si stessero mettendo male. La legge di Murphy si è puntualmente confermata, e Banner (e così il suo Hulk) è rimasto morto per qualche tempo, sostituito da un giovane Hulk più scanzonato, Amadeus Cho, il fichissimo giovanotto verde. Ma le ferie sono terminate, ed era ora che l'Hulk canonico tornasse in scena. Eccolo quindi rispuntare durante la saga degli Avengers intitolata “No Surrender”, dove ci viene spiegato che Hulk è sempre stato immortale. Tutte le volte, dal principio. Per questo torna sempre. Banner muore... ma Hulk la notte successiva tornerà ad emergere, e a rigenerare anche il corpo del suo debole alter ego.


Al Ewing e Joe Bennett firmano dunque l'inizio di un nuovo ciclo, Immortal Hulk, in cui (se il buon giorno si vede dal mattino) dovremo vedere la diade Banner-Hulk schiattare e risorgere più volte, seguendo un ritmo da storia dell'orrore. Perché questo sembra essere il progetto. Riscoprire nel personaggio di Hulk tutto il potenziale inquietante e buio, lasciando da parte i lampi colorati del superomismo per concentrarsi sulla paura e quanto di destabilizzante possa emergere dal rapporto simbiotico tra Banner e il mostro che non gli permette di morire definitivamente.

Il primo episodio ha una regia interessante, ma anche un po' spiazzante. Diciamo che la “novità”, quell'immortalità che c'è sempre stata (ma non era mai stata chiaramente diagnosticata), porta a galla ulteriori ombre sul personaggio e sotto certi aspetti, nel tentativo di rinnovarlo, rischia di annacquarlo. Va benissimo rivedere un Hulk quasi Frankensteinizzato (orribile parola!) e dal profilo molto più truce del solito. Va bene scorgere nel suo linguaggio e nella sua nuova mimica qualcosa che ricorda la crudeltà di Mr. Fixit, sua precedente, celebre incarnazione. A lasciare perplessi è l'alone da spirito della vendetta, più vicino a Ghost Rider che al Golia Verde. Le similitudini (che ci sono sempre state) con il Solomon Grundy della concorrente DC Comics. Persino qualche elemento comune al rapporto del demone Etrigan con il suo ospite umano Jason Blood, ma anche alcune dinamiche del bizzarro e poco noto Resurrection Man.

Rassegnandosi al fatto che nulla si crea e nulla si distrugge (come l'Immortale Hulk), ma che tutto si trasforma in qualcosa d'altro, o comunque qualcosa di diverso ma simile... possiamo dire che la partenza di Immortal Hulk sia un antipasto interessante e che tutto si giocherà sui numeri immediatamente successivi. Il dubbio che permane è la necessità di questa “nuova” caratteristica (jolly molto semplice da utilizzare per riportarlo in scena), in realtà suggerita da sempre, e in qualche modo tanto efficace in quanto lasciata vaga e tenuta sottotraccia. Se l'intento è quello di ammantare di ossessione il mostro che risiede in Banner, come nell'essere umano tipicizzato che rappresenta, tutto sta al tono delle storie a venire. La vera battaglia, il vero scontro tra titani, sarà con le consuetudini commerciali della narrazione supereroistica, che ha sempre attirato Hulk verso un centro di gravità più colorato e più pop. Più un rumoroso kaiju che un mostro realmente inquietante. Ma siamo qui per seguire l'esperimento. Ed eventualmente, divertirci. Anche se un giorno, forse inevitabilmente, l'ampolla fumigante potrebbe scoppiare in faccia sia ai lettori che agli autori. Tanto il risultato sarebbe comunque un faccione verde.

lunedì 4 giugno 2018

Hillbilly di Eric Powell


Streghe, lame e cafoni... dagli Appalachi con amore, dal creatore di The Goon.
E per inciso... il regista di Deadpool si chiama TIM (accidenti a me!). Un altro viaggio nel fantastico, ma stavolta la musica segue un ritmo diverso. Quello della ballata popolare, delle leggende soffiate dai venti sulla catena montuosa degli Appalachi, e dell'eco dei vasti campi americani. Un vagabondo attraversa le sue terre combattendo una guerra personale contro streghe, demoni e ogni forma di maleficio. Lo chiamano... lo Zotico.

giovedì 22 marzo 2018

Maledette Nuvole: Psychopathia Sexualis [di Miguel Angel Martin]


Nel 1995, il mondo del fumetto italiano fu scosso da un episodio sconcertante. L'editore Jorge Vacca, titolare delle edizioni alternative Topolin, già note per la pubblicazione di fumetti provocatori, veniva denunciato per reati gravi per avere provato a stampare nel nostro paese "Psychopathia Sexualis", una delle opera più estreme (almeno fino a quel momento) dell'artista spagnolo Miguel Angel Martin. La vicenda giudiziaria fu lunga e si articolò in più gradi. Più personalità del mondo della cultura italiana intervennero in difesa dell'editore e dell'opera. Come leggiamo oggi l'orrore agghiacciante rappresentato da Martin nelle sue pagine? Perché sconvolge così tanto e qual è la sua reale funzione? Un'opera "maledetta" protagonista di uno dei più celebri casi di censura dell'editoria italiana.

martedì 13 febbraio 2018

Fumettisti contro Youtubers: il volume


Il primo sangue è stato versato. Una guerra mediale è iniziata ai confini dello spazio conosciuto e non sappiamo quanto durerà. Dopo anni di vessazioni, i fumettisti si ribellano e decidono di combattere il fuoco con il fuoco. Il digitale con l'analogico. I video con la carta stampata. "Fumettisti contro Youtubers" è un volume satirico che, aldilà delle polemiche più consumate, fornisce una raccolta di caricature riuscite, e persino qualche spunto critico costruttivo. Oltre a essere fottutamente divertente. Il volume esiste già, ed è da leggere e possedere. Potete sostenere il progetto della Blatta Production su Eppela a questo link: https://www.eppela.com/it/projects/17529-fumettisti-contro-youtubers

sabato 10 febbraio 2018

Ramarro, il primo supereroe masochista


Ramarro, primo supereroe masochista nato dalla matita di Giuseppe Palumbo torna con le sue avventure storiche apparse sulla leggendaria Frigidaire. Un bizzarro cocktail di nichilsmo e cultura pop figlio degli anni 80, e un'ulteriore evoluzione, decisamente anticonvenzionale del concetto di supereroe.

lunedì 18 dicembre 2017

Era la Notte prima di... KRAMPUS!


Natale: ricorrenza, tradizione… festività? Come che sia, qualcuno ama rispettare certi appuntamenti. Il Natale è la festa della nostra infanzia, ma può anche essere il pretesto per osservare con occhio più smaliziato i rottami di un giocattolo che nel tempo si è guastato (ma con il quale si può sempre giocare e trasformare in altro). Riparliamo del Klaus di Grant Morrison (pensavate che fosse finito là dove l’avevamo lasciato? Naaaaa!) e dell’indipendente Tim Baron con il suo “T’Was the Night Before KRAMPUS”. Un alternativo, psichedelico, tenebroso, cinico, goliardico, piacevole Natale a tutti quelli che apprezzano almeno un pezzetto di questo menu festivo. 

venerdì 1 dicembre 2017

Doomsday Clock #1: ...è il seguito di Watchmen?


Qualche riflessione sull'inizio di "Doomsday Clock", di Johns e Frank. La rinascita del cosmo DC partita con "Rebirth" entra nel vivo, e si parla di (blasfemo) seguito del capolavoro di Alan Moore: Watchmen. Raffreddiamo il bollenti spiriti, esaminiamo le premesse di questo primo capitolo e cerchiamo di capire dove potrebbe portarci nei mesi a venire...