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giovedì 4 giugno 2020

In the Flesh



"In the Flesh" è una serie TV inglese trasmessa dalla BBC per due sole stagioni a partire dal 2013. Dopo un'apocalisse zombi che ha mietuto numerosissime vittime, l'umanità ha trovato il modo di arginare il problema e ricominciare. La vera conquista dovrebbe essere il fatto che gli scienziati hanno trovato una cura per i morti viventi. Un cocktail di farmaci che somministrati in modo regolare riattivano il loro cervello, ripristinando la loro personalità, i ricordi, le emozioni, e sopprimono la frenesia di nutrirsi della carne dei vivi. I morti restano morti, ma psicologicamente tornano del tutto umani, e possono essere reintegrati nella società e nelle loro famiglie. Almeno, in teoria. Considerato che i non morti curati conservano i ricordi di quando vagavano uccidendo e sbranando le persone vive, e che molti tra i viventi, alcuni dei quali si sono distinti nella lotta alla piaga zombi, vedono in loro soltanto pericolose mostruosità da estirpare, e non reduci di una terribile malattia, ora chiamata Sindrome del Decesso Parziale. Questo non può che suscitare un clima di tensione, di sospetto, paura e odio nei confronti dei nuovi diversi. E Kieren, giovane che ha commesso suicidio prima dell'epidemia, risorgendo come non morto antropofago, e oggi restituito alle cure della sua amorevole famiglia, dovrà affrontare molti demoni, interiori ed esterni. In un quadro sociale molto complesso, perché dove ci sono mutanti e discriminazione, esiste sempre anche un Magneto... E' evidente quanto questa serie inglese (cancellata dopo due stagioni e rimasta inedita nel nostro paese) abbia ispirato "The Cured", film di David Freyne del 2017, che ruba letteralmente tutti gli spunti fondamentali di "In the Flesh" (sebbene nel film di Freyne non si parli di zombi, ma piuttosto di infetti che manifestano la stessa violenza cannibale). Il punto cruciale, però, è che la serie TV creata da Dominic Mitchell centra ogni bersaglio là dove "The Cured" si limita ad accennare, e si arena afflosciandosi su se stesso. Già l'episodio pilota di "In the Flesh" (sì come il brano dei Pink Floyd) dice tutto in un'ora scarsa di minutaggio, presentando metafore sì già viste, ma rese con una forza emotiva che travolge. In "In the Flesh" c'è dramma, thriller, e persino momenti di reale commozione. La necessità dei non morti recuperati di vestire un make up che camuffi il loro aspetto cadaverico, e delle lenti a contatto che nascondano i loro occhi spettrali, è solo il punto di partenza in una parabola sulle diversità (al plurale, attenzione...) e le contraddizioni di un mondo che si sforza di essere giusto, ma che non riesce a esserlo davanti a un cambiamento costante che fa piazza pulita di regole, etica, e aspettative di vita. I motivi (non subito svelati) che hanno condotto Kieren al suicidio hanno una forte importanza, così come la rappresentazione di maschere sociali che non hanno niente da invidiare al fondotinta degli zombi recuperati. E forse sono anche peggio. Ancora una volta la soppressione del cervello diventa simbolo. Simbolo di sottomissione e di azzeramento del dissenso e delle individualità. E per una volta, la seconda vita dei morti viventi può essere intesa come una possibilità, dolorosa, difficile, ma anche preziosa, di provare a vivere come un tempo non potevamo. Si potrebbe dire che già "True Blood" (serie fin troppo bistrattata oltre tutti i suoi oggettivi difetti) utilizzava i vampiri come simbolo di diversità. Ma "In the Flesh" ha qualcosa di diverso, e di molto british. Si prende maledettamente sul serio, e picchia duro rinunciando all'etichetta di horror per sconfinare in un genere difficile da catalogare. Un vero peccato che da noi sia rimasta del tutto inedita mentre si macinano e si traducono quattro stagioni di "13".

lunedì 4 maggio 2020

I morti non muoiono [di Jim Jarmush]

Non sono sicuro di avere capito bene "I morti non muoiono" di Jim Jarmush. Nel senso che non sono certo di avere compreso del tutto che cosa Jarmush si proponeva di fare con questo metafilm a base di zombi, comedy, spunti satirici, omaggiante un genere, il proprio cinema passato e... si direbbe altro ancora. Non posso dire neppure che non mi sia piaciuto. Forse perché "I morti non muoiono" è talmente carico di spunti simpatici, di attori mostruosi e camei illustri, che semplicemente ti bagna le polveri del dissenso e ti induce comunque a un atteggiamento indulgente. Eppure, quello che penso sia più ragionevole dire è... che non credo di averlo capito. Limite mio, probabilmente, che non riesco ad allineare in modo perfetto le tessere di un mosaico citazionista e allegorico in cui i temi centrali sono già stati talmente sfruttati da risultare ovvi. La cosa che mi affascina di più, paradossalmente, è proprio la scelta di adottare un ritmo compassato. Non lento, ma di una calma esasperante (rappresentata in modo encomiabile dall'imperturbabile personaggio di Bill Murray) che praticamente ti conduce attraverso l'inizio dell'apocalisse con una rassegnazione inedita. Forse è proprio questo il bandolo della matassa. Il fluire del racconto filmico, affidato a un'ironia placida che non si scompone neppure nelle scene in cui le urla, il sangue e la morte dovrebbero farla da padrone. Un mondo che non finisce con fragore, ma con un gemito sommesso e quasi un sorriso cinico, come se l'intero pianeta, nel soccombere alla piaga che lo sta distruggendo, anziché urlare, mormorasse sogghignando «Che fregatura, eh!» Se l'intento era quello di spiazzare, con me l'obiettivo è stato sicuramente centrato. Forse, un tema così abusato, già filtrato più volte dalla commedia, e persino cannibalizzato da altri generi, non può più essere rappresentato se non con distacco. Il disincanto di chi ormai conosce non solo le regole del gioco, ma ogni possibile sviluppo e l'inevitabile finale. Un distacco emotivo e formale, perché ormai certe storie non si possono più raccontare fingendo di crederci. Oppure si possono descrivere soltanto ammettendo di non crederci più, sapendo che il giocattolo è irrimediabilmente rotto, e arrendendosi ormai alla noia di una parabola nera che avrà comunque ragione delle nostre resistenze. Vediamo il baratro, contiamo i passi, ma sappiamo di non essere in grado di fermarci. Possiamo solo accettare la fine, e andarle incontro rassegnati. Nessun twist ci illuderà con un'effimera ondata di adrenalina. Nemmeno il segreto (di Pulcinella, ormai) che i diversi, gli strani, rivelano risorse in più in situazioni di emergenza, e che forse è proprio la loro diversità, la loro stramberia, a condurli in salvo, lasciando gli omologati, i normali al loro destino infausto. E anche in questo caso, mi accorgo, non posso fare a meno di azzardare interpretazioni, anche quando ritengo di non avere ben capito. Ma mi resta la sensazione che "I morti non muoiono", con la sua placida, quasi inerte, ironia citazionista, sia un film di un pessimismo devastante.

giovedì 27 ottobre 2016

Io e la folla: una riflessione (molto pedante) su The Walking Dead



Torniamo a parlare un momento di The Walking Dead.
Tranquilli. Nessuno spoiler di nessun genere. Solo una riflessione, dopo tredici anni di serie a fumetti e sei stagioni della versione televisiva (di cui è appena iniziata la settima).
Qui non faremo nessuna distinzione tra l'originale cartaceo e la versione in live action, ma una considerazione generale, emersa spontaneamente durante (questo sì) la visione dei più recenti episodi della serie TV.

Con The Walking Dead, l'autore Robert Kirkman ha portato nella serialità lo zombi romeriano. Lo “zombi famelico” diciamo. Quello che non nasce da un sortilegio Vudù, in qualità di automa di carne al servizio di uno stregone. Bensì gli zombi del mito cinematografico moderno, quelli antropofaghi (visto che, come è spiegato in Dawn of the Dead di George A. Romero “non sono cannibali, i cannibali mangiano i loro simili. Loro mangiano noi”).


Sfondiamo una porta già aperta se non del tutto scardinata. I film di Romero, per quanto la saga si sia protratta per più film, sono da considerare parabole politiche concluse nello spazio di ogni singola pellicola. Insomma, non sono gravate dal peso di una reale continuità. E anche se volessimo essere fiscali e vedercela ugualmente, non importerebbe, perché ogni film ha un suo meccanismo compiuto al suo interno. Non è così per The Walking Dead (fumetto e serie TV) dove l'idea basica concepita da Romero è adattata per viaggiare sui binari di un prodotto seriale a lungo termine. Diciamo pure che, nella saga di Kirkman, gli zombi, ben presto, si trasformano in un rumore di fondo, una scenografia, un contesto. Non sono protagonisti, sono un pretesto per seguire la storia di sopravvivenza di un pugno di esseri umani in un mondo imbarbarito e senza più regole a causa dell'epidemia. Non a caso (frase citata fino alla nausea) George Romero stesso ha definito The Walking Dead una soap opera in cui ogni tanto appaiono gli zombi.

Volendo, The Walking Dead, come dinamiche, non è troppo distante dal classico “I sopravvissuti”, storica serial  della televisione britannica che raccontava proprio le vicende di un gruppo di superstiti a un'epidemia globale che aveva ridotto ai minimi termini la razza umana facendo collassare ogni ordine sociale. In quel caso non c'erano vaganti affamati di carne viva, i morti non si rialzavano. Chi era morto restava morto, e il grosso guaio era solo l'inselvatichimento della razza umana residua, divisa tra chi sceglieva una pacifica ricostruzione e chi aveva intrapreso la strada della prevaricazione (vi ricorda nulla?).

Pensandoci bene, il punto debole potrebbe essere un altro, e la serializzazione rivelarsi un autogoal logico per la saga immaginata da Robert Kirkman.

Quanti anni sono passati (nel fumetto e nella serie) dall'inizio dell'apocalisse zombesca? Anche a voler condensare molto gli eventi, un po' di tempo è trascorso. E allora? Da dove continuano ad arrivare queste mandrie infinite di vaganti? C'è anche da chiedersi quanto sia verosimile che, presso le comunità più organizzate di sopravvissuti non si sia riusciti a edificare strutture difensive adeguate (puntualmente, i vaganti a un certo punto buttano giù tutto e mangiano tutti senza troppa difficoltà, solo con la pressione del numero). Perché non vengono pianificati metodi di regolare bonifica del territorio, volti a eliminarli in massa (in situazioni estreme anche usando esplosivi o il fuoco o mille possibili trappole)? Ma soprattutto, perché non si estinguono? Una volta compreso il meccanismo di trasformazione, i morti sono colpiti al cervello affinché non si trasformino. Eppure, là fuori, continuano a esistere folle di zombi che arrivano da ogni parte. Ok, prendiamo per buono che la loro putrefazione è molto lenta, anzi arriva a un certo punto e si arresta. Cosa che gli permette di non sciogliersi in poltiglia dopo qualche settimana. Ma le mosche, gli insetti, i vermi, non se li mangiano? La natura è piena di creaturine rosicchiacadaveri contro le quali gli zombi non avrebbero nessuna difesa. E non cominciamo a dire che ne arrivano sempre di nuovi dal mare. Magari da oltre oceano, camminando sul fondo. Perché le correnti e i gorghi renderebbero impossibile un tale esodo di massa, e un fracco di pesci predatori ne farebbero polpette. Invece no, esiste un'orda anonima di zombi che si trova lì, inesauribile, solo perché funzionale alla storia. Ma razionalmente non potrebbero restare così numerosi con il trascorrere del tempo. Dopo qualche anno, specialmente. Il loro numero dovrebbe essere sensibilmente diminuito, e non presentare più mandrie come quelle che vediamo di frequente nella serie TV o nel fumetto.


La serializzazione del tema richiede dunque una cospicua sospensione dell'incredulità. Così come la richiede pensare che un cadavere putrefatto (spesso in stato avanzato) abbia ancora denti abbastanza sani da mordere senza che gli caschi la mascella, riducendo il tentato morso solo a uno shock da schifo totale, un disgustoso massaggio gengivale.

Se applicare le regole della fisica ai supereroi annienta le loro ragioni d'essere alla base, così l'andamento naturale delle cose dovrebbe quantomeno ridurre drasticamente il numero dei vaganti, minando alle fondamenta l'intera saga.

Ovviamente, stiamo solo scherzando. E' tutto un gioco, e dobbiamo accettarlo per quello che è.


martedì 27 ottobre 2015

Speciale Halloween: Il Corriere della Paura e Simon Garth



Da dove arriva Halloween? Quello vero, che si festeggia negli Stati Uniti, è stato reso popolare in tutto il mondo grazie a tributi come quelli di Charles Shulz nei "Peanuts", con i racconti di Linus sul Grande Cocomero, e più tardi dal quel gioiello cinematografico che è "Halloween - La notte delle streghe" di John Carpenter? Proviamo a ripercorrere la storia di questa ricorrenza che ha ormai travolto anche l'Italia con la sua irruenza commerciale. E già che ci siamo (ed è in tema) ricordiamo la storica pubblicazione del Corriere della Paura, rivista dell'Editoriale Corno, che trattava argomenti decisamente in sintonia con la notte delle streghe. Con una dedica particolare a Maria Grazia Perini, grande protagonista di quel periodo dell'editoria a fumetti italiana, e al personaggio di Simon Garth, uno zombi molto distante da quelli che siamo abituati a vedere oggi tra cinema e televisione.

venerdì 9 gennaio 2015

Web Series Are Dead (Episodio Pilota)


In principio erano gli zombi...

Anzi, no, in principio era Skypocalypse, una web serie naif, ideata quasi per gioco da un gruppo di giovani youtubers fantasiosi. Nel giro di un paio d'anni il gioco crebbe, si fece notare... si fece duro, insomma. E quando il gioco si fa duro...

Beh! Si può anche scegliere di mollare quando i morti viventi ti stanno mordendo il culo, si sono ormai pappati praticamente tutto e tutti, e i kit di sopravvivenza scarseggiano. Così Skypocalypse ha chiuso i battenti, irrisolta come certi cult televisivi ormai storici, affascinanti e incompleti, congelati nell'immaginario di chi si ostina a ricordarli con passione.


O no?

La notizia della scorsa Estate sulla chiusura della serie per cause di forza maggiore aveva addolorato in tanti. L'esperimento, con tutti i suoi limiti fisiologici, era appassionante, e stringeva il cuore vederlo arenarsi e perdersi così. Del resto, ha commentato qualcuno, le web serie sono morte... come Marx, come Dio e le grandi ideologie. Si è detto e fatto di tutto, e ormai ci sono solo la noia, la depressione e il piattume del quotidiano. E tu... che avevi paura dei mortacci deambulanti e dei loro denti marci... ma vaffanzappa, e trovati un lavoro serio! Poi l'annuncio. Il canale cambia nome. Si prepara il lancio una nuova web serie.
Il titolo? Guarda caso: Web series Are Dead.

Qui arriva la sorpresa...

Skypocalypse non è veramente terminato. Web series Are Dead è il vero seguito di Skypocalypse, la sua evoluzione naturale. Dalle macerie di un progetto collassato, la crew di impavidi youtubers ha estratto un cuore ancora debolmente pulsante. Con la collaborazione di ulteriori compagni di malefatte (gli agguerriti Sghilimberto Production) hanno praticato al muscolo atrofizzato un'iniezione di adrenalina e sfacciataggine. Hanno rischiato, e sono stati a guardare l'esito del loro esperimento alla Frankenstein. Pensa tu. Contro ogni previsione, quella massa molle, quasi morta, è ripartita come un assolo di batteria in acido, ancora più pimpante di Mia Wallace dopo il trattamento in Pulp Fiction. Le tombe si sono scoperte, i morti si sono levati di nuovo... e stavolta corrono, in una direzione totalmente inattesa per di più. Ecco, dunque, Web series Are Dead. Un titolo che nega se stesso. Negazione freudiana, che afferma il suo esatto contrario. Uno spunto metawebbico (...ma questa parola esiste?) che possa fare tesoro degli errori passati e recuperare l'entusiasmo che sembrava esaurito per strada. L'esito dell'episodio pilota è qualcosa di spumeggiante, che non solo consola per la prematura cancellazione della serie precedente, ma che riesce ad andare oltre promettendo una marea di divertimento. E questo sicuramente non è poco.

La nuova partenza è deliziosamente allegorica. Con la cancellazione della web serie, i morti viventi hanno trionfato, e si sono mangiati l'intera esistenza del vecchio cast. Sogni, ambizioni, entusiasmi. Oggi la desolazione regna sovrana. Radar-Victor, morsicato nelle prime due (uniche e sole) puntate della seconda stagione di Skypocalypse, è effettivamente cambiato in zombi... ma in un modo diverso da come ce lo saremmo potuto aspettare. Spento e kafkiano più che orrido e romeriano. Gli altri non hanno avuto una sorte più fortunata. Il fallimento dell'esperienza li ha provati, disillusi, e per loro la vita si trascina da un anno in uno squallido automatismo. Questo fino all'arrivo di una misteriosa lettera con sopra il marchio della web serie ormai chiusa. Il messaggio di qualcuno che vorrebbe riunire la vecchia ciurma per scopi ancora tutti da verificare...


Non c'è bisogno di cadere in esagerati lecchinaggi con parole come... “geniale”. La voglia di lodare, quando si fa stucchevole, rischia di banalizzare i meriti piuttosto che premiarli. Diciamo solo che le menti dietro alla sceneggiatura del pilota di Web series Are Dead (quelli che ormai alcuni tra noi chiamano affettuosamente i Mattia Bis) dimostrano che sarebbe bene non sottovalutarle mai. Le due web serie (almeno in questo gancio iniziale) sono assolutamente interconnesse, e giocando con fantasmi pirandelliani (e vagonate di citazionismo nerd) riescono a colmare il vuoto nel cuore del loro pubblico, regalando a sorpresa quello che è a tutti gli effetti un imprevedibile sequel e nello stesso tempo una divertente trasformazione. Senza soffermarci sulla maturazione tecnica (che non ci compete, ma è comunque evidente) scopriamo con piacere che anche la recitazione dell'intero cast sta subendo una piacevole evoluzione. Mattia Pozzoli (Matioski) si sbarazza finalmente della caratterizzazione sopra le righe di White Dragon, e presenta una naturalezza imbronciata del tutto convincente. Mattia Ferrari (Victorlaszlo88) si definisce sempre più come un potenziale comico-serio di grande talento, e tutti gli altri non sono da meno. I puristi arriccino il naso quanto vogliono, ma qui la creatività si vede, si taglia con il coltello e scalda il cuore. E' facile sorvolare sui dettagli più ingenui e lasciarsi contagiare (...esatto!) dall'allegria della crew. I dialoghi funzionano senza troppe cadute e la presenza in scena della maggior parte dei volti conosciuti in Skypocalypse (Benzrog, DavePlissken e gli altri) dà una piacevole sensazione di rimpatriata. Prevedibile, ma non per questo meno godibile, il cameo di Karim Musa (Yotobi). La sua sortita-uscita nell'episodio pilota è a sua volta un cliché ben gestito. Addirittuta epico nei suoi richiami mitologici alla fine di Orfeo sbranato dalle baccanti. Ma anche citazione (forse involontaria, ma non importa) del Cristo soffocato dai bisognosi affamati in Jesus Christ Superstar. Certo, a suggerire la gustosa parentesi è stata palesemente una necessità pratica. La probabile impossibilità di Yotobi a partecipare con continuità al progetto. Ma va bene così, sono le regole (in perenne riscrittura) della narrazione seriale. E ci rammenta anche il famoso webisode che fa da ponte tra la seconda e la terza stagione del serial britannico Misfits, dove ci veniva spiegato perché mai il personaggio di Nathan, uno dei protagonisti principali, non fosse presente nel seguito della serie. Lo spirito di Web series Are Dead è pertanto il medesimo di Skypocalypse, giusto con un tocco di surrealismo in più, e una goliardia maturata, ma fortunatamente ancora lontana dall'esaurirsi. Lo dimostra un divertente siparietto allegorico in cui Victorlaszlo88 sembra prendere consapevolezza di essere ormai diventato un personaggio iconico nella comunità di Youtube, e (a modo suo) apre la camicia come Clark Kent per mostrare a tutti lo stemma di Superman. Un po' come dire... «Siamo tornati! Siamo ancora in ballo e... balleremo!»


Sghilimberto Production, collettivo di giovani cineasti rampanti, rappresentano sicuramente una marcia in più di questa nuova avventura seriale sul tubo. Il montaggio dell'episodio pilota sfoggia infatti una grande pulizia, senza fronzoli, e proprio per questo diligente, non invasivo e al servizio della storia che intende raccontare. Che cosa ci aspetta dopo il flash iniziale? L'attesa, a questo punto, è tanta. Quel che è facile immaginare è che si parlerà ancora dei meccanismi (a volte demenziali) dietro le produzioni di web serie, del mezzo Youtube e di dove vanno a finire i sogni di quanti oggi affidano alla rete i propri entusiasmi. Il nocciolo narrativo deve ancora prendere forma, ma la premessa fa ben sperare, e un «Bravi!» ci sta tutto.
Webseries Are Dead (come già sua mamma Skypocalypse) sono i prodotti che vorremmo vedere sul tubo più spesso. Esplosioni di creatività spontanea, slegata da interessi commerciali e animata dalla pura voglia di divertirsi e confrontarsi. Anche per questo, Youtube come mezzo va difeso e tutelato da meccanismi perversi che potrebbero annacquarlo e tendere a omologarlo al panorama sempre più piatto del media televisivo. Difeso dai veri zombi, insomma, quelli da cui scappavamo rifugiandoci su Skype, sforzandoci di inventare un modo per superare i nostri limiti, e produrre contenuti che dessero un senso alla giornata. Un applauso, quindi, all'intera crew di Sky... Pardon! Web series Are Dead. E un augurio di spaccare tutto, stavolta.

Le web serie sono morte?
Lunga vita alle web serie.


[Articolo di Filippo Altroquando Messina]


lunedì 14 gennaio 2013

Canto di Natale Zombi



Lo sappiamo. Già ci sembra di sentirlo: «Natale è passato, non ve ne siete accorti?»
E' vero, è un fumetto di cui sarebbe stato meglio parlare durante le feste. Detto questo, premettiamo che esistono comunque tre buone ragioni per parlare di questo Canto di Natale Zombi, targato Marvel.

1 – Natale sarà pure passato, ma gli zombi, di questi tempi, sono di gran moda.

2 – L'opera in questione è tratta da un classico intramontabile della letteratura inglese, rivisitato in mille modi e da mille media, e per la potenza dei suoi contenuti è un racconto che trascende le festività durante le quali è ambientato.

3 – Per quanto sia lecito guardarlo con sospetto, è davvero molto, molto carino.

Tutti conoscono (o almeno dovrebbero) la storia di Ebenezer Scrooge, il granitico taccagno uscito dalla penna di Charles Dickens e divenuto icona universale della redenzione di un'umanità indurita dalle amarezze della vita. Come dicevamo, Canto di Natale, di Dickens, conta un numero sterminato di versioni, riletture e adattamenti. Film, parodie, un celebre lungometraggio della serie animata Mr Magoo, e più recentemente un bellissimo speciale natalizio di Doctor Who, dove il signore del tempo deve riuscire ad ammorbidire in fretta l'animo cagliato di una versione avveniristica dell'irriducibile misantropo, assumendo il ruolo degli spiriti del Natale passato, presente e futuro.


Domanda: che cosa c'entrano... anzi, come possono entrarci gli zombi in un racconto che fa della riscoperta dei valori semplici e della gioia di vivere i propri cardini fondamentali?


C'entrano, c'entrano... Ed è tutto merito di George A. Romero, padre di tutti i morti ambulanti dell'età moderna, quelli cannibali, che già nello storico La Notte dei Morti Viventi, simboleggiavano un popolo di diseredati che si ridestava per divorare fino all'osso la società corrotta che li aveva resi reietti. In Canto di Natale Zombi, i fantasmi protagonisti del racconto originale lasciano posto a creature molto vicine all'attuale mitologia zombesca, ma tornando ad attingere ai sottotesti politici sdoganati da Romero nella sua fortunata serie cinematografica. Londra è allo stremo, assediata da un'orda di creature affette da una pestilenza che è stata definita morte famelica. Gli esseri umani contagiati mutano in cadaveri animati da un appetito insaziabile che una volta consumato tutto il cibo disponibile sbranano i propri simili, seminando morte e diffondendo il contagio. Natale è alle porte e l'unico cittadino che ancora possiede risorse in grado di tenere a bada la mostruosa fame della popolazione mutata è proprio il ricchissimo e inavvicinabile Scrooge. Ma che cos'è veramente la morte famelica? Da dove è arrivata fin nel cuore di Londra, come ha iniziato a diffondersi? La risposta non è scontata, e s'incastra in modo sorprendente con i temi dell'opera di Charles Dickens grazie alla sceneggiatura divertita e ispirata di Jim McCann, capace di riscrivere con una grazie inattesa una delle più grandi storie natalizie di sempre infondendole la componente horror di maggiore successo mediatico del momento.


Per un'operazione del genere, il kitsch e l'inutile profanazione letteraria erano rischi ovvi, eppure il lavoro di McCann funziona benissimo, accompagnato alle matite da David Baldeon, cartoonesco e malizioso quanto basta per evocare tanto Scrooge e gli spiriti del Natale che ben conosciamo quanto un'apocalisse zombi del tutto funzionale alla trama. L'avventura notturna di Scrooge e le tappe morali della sua redenzione rimane deliziosamente intatta, e la presenza (anche concettuale) dei morti viventi contribuisce all'ulteriore divulgazione di questo classico della letteratura. Commozione e divertimento non mancano, in una confezione che sprizza simpatia e sarebbe un bel regalo (non soltanto natalizio) per i più giovani che ancora non conoscono questo classico della narrativa inglese, ma anche per chi lo ama e può godere appieno questa nuova, riuscita variante.

Una sorpresa che magari non resterà negli annali del fumetto d'autore, ma che in mezzo a tante uscite trascurabili (e a tanti, troppi zombi) merita la lettura più di altro. E se fosse la sua origine letteraria a farvi arricciare il naso... Beh, sapete una cosa?
«I morti ti prenderanno, Barbara... I morti ti prenderanno...»




[Articolo di Filippo Messina]

lunedì 29 ottobre 2012

Crossed: Valori di famiglia


Adaline, la maggiore delle ragazze Pratt, quella sera aveva appena imbracciato il fucile. Il suo proposito era quello di assassinare il padre, dopo l'ultimo disperato tentativo di ragionare con lui. Per diciassette lunghi anni, il religiosissimo Joseph Pratt aveva mandato avanti il ranch di famiglia violentando regolarmente tutte le sue figlie femmine. Tutte eccetto Adaline, più risoluta e forte anche dei fratelli, inermi di fronte al dispotismo del capofamiglia. Così come la madre, patetica caricatura di uno stucchevole angelo del focolare, prigioniera della propria mostruosa debolezza. Ma prima che Adaline potesse tirare il grilletto, una figura urlante saltò fuori dal bosco intorno alla casa dei Pratt. Una piaga sanguinolenta a forma di croce gli attraversava il viso e l'espressione di feroce giubilo tradiva intenzioni tra le più violente.
Non era solo. Presto il ranch fu assediato da un'orda di creature folli e malvagie, portatrici di un letale contagio in grado di trasformare il più mite degli uomini in una creatura priva di inibizioni, feroce e sadica. Solo la rude risolutezza di Joseph riuscì a sfuggire alla morsa del nemico e a guidare i propri familiari superstiti verso una parvenza di salvezza. Sempre nel nome di quel dio che Joseph aveva insegnato ai suoi figli a venerare. Quel dio che non aveva mai mosso un dito per impedire le nefandezze di un padre contro la propria progenie. Fu così che Adaline ripose il fucile per seguire il genitore in quella disperata corsa per la sopravvivenza, mentre il misterioso virus faceva impazzire il mondo intero, popolandolo di ottusi e perversi mostri bramosi di sangue e morte. Un mondo, forse, non troppo diverso da come è sempre stato, come dio o il diavolo lo hanno forgiato... 

 

Crossed: Valori di famiglia è la seconda miniserie dedicata all'universo apocalittico presentato da Garth Ennis e Jacen Burrows in un primo ciclo di successo che ha generato velocemente più spin off e si appresta a inaugurare anche una serie regolare il cui primo arco narrativo tornerà in mano al suo demiurgo originale. Al timone di Valori di famiglia troviamo invece David Lapham (Stray Bullets, Young Liars) per i disegni dello spagnolo Javier Barreno. Si è scritto che Crossed: Valori di famiglia non può essere considerato un seguito della precedente serie, ma un racconto ambientato nel medesimo contesto narrativo, i cui sviluppi sono del tutto indipendenti dalle trame raccontate da Ennis e Burrows. E' proprio così. Valori di famiglia può essere letto come un inizio alternativo, dove la pandemia che sconvolge il mondo è la medesima, ma dove gli avvenimenti sono osservati da un punto di vista differente. Ma non è tutto qui. Crossed: Valori di famiglia è spiazzante per la profonda diversità di approccio ai medesimi spunti partoriti dalla mente di Garth Ennis, e l'estro surreale e insinuante di David Lapham (vicino per spirito iconoclasta ai grandi autori della Beat Generation) riesce a cucinare un piatto affatto nuovo partendo dalla ricetta che gli era stata fornita. Ma la bizzarria del fenomeno Crossed non si esaurisce qui, e fornisce altri interessanti spunti di riflessione.


Parlando del primo Crossed, abbiamo percorso un cammino a ritroso che potesse aiutarci a comprendere meglio le sue radici nell'immaginario horror maturato per mezzo secolo, a spiegarcene l'odierno successo commerciale e a definirne i redivivi elementi splatterpunk. In patria, il franchise ideato da Ennis ha spopolato, seguito dal successo delle ulteriori miniserie scritte da David Lapham. La situazione è un po' diversa in Italia, dove la serie iniziale è stata accolta da molti con entusiasmo e celebrata come un gioiello del perturbante, mentre il “non sequel” firmato da Lapham è andato incontro a critiche severe se non a un vero e proprio rigetto da parte di quanti avevano apprezzato il racconto apocalittico di Garth Ennis. Si è scritto (e a ragione) che il racconto di David Lapham accentua ulteriormente l'orrore estremo e provocatorio del precedente ciclo narrativo. Si è parlato di caduta di stile, di noia e assenza di una vera trama. Di violenza macabra e stavolta fine a se stessa. Di brutti disegni e fondamentale inutilità.


E' davvero strano (ma anche intrigante) scoprire che la serie scritta da Lapham è tutto il contrario.
E' un fumetto estremo, sporco, ma di sottile fascino. Una storia che ha tutte le carte in regola per essere (almeno per chi scrive) il “vero” Crossed. Molto più punk del suo predecessore, nelle idee ancor prima che nella forma. Un racconto disturbante e metaforico, che ha con il ciclo di Ennis lo stesso rapporto che il film Zombi (Dawn of the Dead) avrebbe con uno dei tanti Resident Evil.
La serie di Garth Ennis conservava, sia pure camuffata, l'ironia grottesca tipica dell'autore irlandese, e seguiva meccanismi classici da survival horror. In Valori di famiglia non si sogghigna neppure per un attimo. Piuttosto ci si sente torcere le budella. I meccanismi da thriller classico restano sullo sfondo, mentre l'orrore s'insinua sottopelle. E si riflette.


La trama è densa e sfacciatamente allegorica. Lapham mette al centro del racconto una figura iconica della storia di frontiera: il patriarca, simile a un monarca alla guida del suo ranch. Capo spirituale e leader incontrastato del suo branco. Lo ammanta con ombre provenienti anch'esse da pagine amare della storia americana, con la pratica dell'incesto e della religione esercitata come strumento di potere. La croce sul volto degli infetti diventa così più che mai ambigua e simbolica. Simbolo religioso o di tortura? Magari entrambi, secondo l'estasi del dolore e dell'annichilimento vissuta dai contagiati. Una storia di orrore che si propone di essere una parabola nera, coltivando capitolo dopo capitolo un senso di raccapriccio molto più concettuale rispetto al suo predecessore, e forse per questo meno immediato per alcuni lettori.

Il racconto horror di Lapham, che parte dal cliché basico di una mostruosa epidemia planetaria, è una celebrazione psicanalitica dei legami familiari, soprattutto per quanto riguarda i rapporti convenzionali e reali tra genitori e figli. Crossed: Valori di famiglia è prodigo di citazioni freudiane, spesso espresse con scene agghiaccianti che rappresentano sempre l'apice di un disagio psicologico ben orchestrato. Il mito di Crono è rappresentato più volte, in una visione pessimista delle relazioni tra consanguinei che culmina con quella che è forse la sequenza più macabra e violenta degli ultimi anni. Anche la già celebre scena di pubblica defecazione (con conseguenze splatter), che tanto sembra aver disgustato i fans di Garth Ennis, non è che la teatralizzazione didascalica di una pulsione genitoriale spogliata da ogni umano freno inibitore. L'esasperazione di una madre per un figlio che sporca in un momento inopportuno. Così come l'inattesa inversione di ruoli (anche sessuali) raccontata con una simbologia forse scontata, ma di sicuro impatto emotivo. Padri, madri, figli e figlie, in numerosi frangenti non vorrebbero fare altro che ammazzarsi a vicenda. Per Lapham, l'epidemia che trasforma in maniaci assassini, in realtà pone l'accento su pulsioni umane normalmente soffocato dalla cultura, dalla religione e dalle convenzioni sociali. A tenere unita la famiglia è soprattutto la necessità di sopravvivere. Unica ragione che permette di lasciare da parte anche una colpa grave come quella di un padre che violenta e ingravida le proprie figlie. Figura mostruosa e salvifica nello stesso tempo, impastata di contraddizioni morali e motore principale di una tragedia familiare che farà all'amore con il terribile contagio, come se fossero l'una l'immagine speculare dell'altra.
Qualcuno ha definito Crossed: Valori di famiglia un'avventura western-splatter. Di west, in verità, ci sono soltanto gli accenni iconici, oltre agli ampi spazi della frontiera, i cavalli e la loro vitale necessità. Siamo in presenza di una storia horror che fa orrore per davvero, dove il confine tra mostri e umani è molto più labile che nella prima saga. Non è un caso che in Valori di famiglia gli infetti parlino molto di più, spesso suggerendo che l'identità dell'individuo non è del tutto scomparsa, ma è stata piuttosto sfrondata dai condizionamenti del Superego, lasciando libero l'Es, la parte amorale e pulsionale per antonomasia, libera di esprimersi in tutta la sua mostruosità. 



Valori di famiglia, prende in qualche modo anche le distanze dall'elemento zombesco. Stavolta gli infetti ricordano molto, per espressioni e linguaggio, l'indemoniata de L'Esorcista, insinuante e rivelatrice di magagne nella sua volgarità, e fanno gelare il sangue quando, imprigionati, ricorrono alle parole per tormentare le proprie vittime. Inquietante la versione oscena della canzone Que sera sera, ulteriore profanazione concettuale che riassume l'inferno di una vita vissuta in uno stato di abominevole sottomissione. Parlando, per concludere, dei disegni del bistrattato Javier Barreno: l'artista, pur senza particolari guizzi creativi, mette la sua matita al servizio della storia di Lapham, e la completa graficamente in modo diligente. Forse con uno stile che qualcuno abituato al mainstream potrebbe trovare un po' troppo underground (non riusciamo a trovare altra spiegazione per chi ha giudicato con un deciso pollice verso il suo modo di disegnare). Incrociando l'espressività iperrealista di Steve Dillon (ma senza la sua patina beffarda) con delle anatomie che rimandano alle figure spettrali di Egon Schile, Barreno riesce a evocare uno scenario splatterpunk forse meno commerciale rispetto a quello di Jacen Burrows, ma proprio per questo più verace e disturbante. E' probabile che le ambizioni letterarie e metaforiche del racconto ideato da Lapham abbiano finito col travolgere il lavoro svolto da Barreno, facendo sì che quanti inciampano sui molti rimandi simbolici e psicanalitici guardassero con antipatia anche le sue illustrazioni, in realtà efficaci e tutt'altro che disprezzabili. 

In definitiva, Crossed: Valori di famiglia, è a nostro parere un fumetto molto più interessante rispetto alla serie progenitrice. Proprio perché in grado di cannibalizzarne il modello commerciale per produrre una macabra parabola sulla controversa natura delle relazioni umane. Persino il finale, definito da qualcuno fuori luogo e inopportuno, è quanto di più trasgressivo possa essere concepito come conclusione di un'odissea all'insegna dell'orrido e della crudeltà. Uno sputo in faccia a un uditorio di fans affamati di tenebra e cattiveria d'accatto. La provocazione finale di David Lapham, che suggella una storia scritta con il sangue. Una risata silenziosa ma sardonica, mentre le lacrime scorrono amare, in sottofondo alla tavola conclusiva.
Può non piacere, non essere ciò che ci si aspettava. Ma la trasgressione, quella vera, è ciò che devia dal prevedibile, che spiazza, e ti colpisce dove non ti aspetti, dove ti farà più male.
Non alle viscere. Dritto al cuore.




Questa recensione è stata pubblicata anche su FantasyMagazine.


[Articolo di Filippo Messina]





mercoledì 3 ottobre 2012

Crossed, di Garth Ennis e Jacen Burrows

 

Un misterioso contagio dilaga improvvisamente in tutto il mondo. Un virus che rende gli infetti folli e animati solo dalle pulsioni più violente e perverse mentre una piaga scarlatta a forma di croce deturpa i loro volti. Li spinge una sorta di estasi del dolore, che non esitano a infliggere anche a se stessi in mancanza di vittime non ancora contaminate. Basta un morso, uno sputo, e si è contagiati. Chi cade preda dei loro attacchi subisce la più orrenda delle morti. Un pugno di uomini e donne tentano una disperata fuga attraverso un mondo devastato, in cerca di zone disabitate e relativamente sicure. Ma gli infetti sono ovunque, e l'unica cosa che pensano, la sola che li fa gioire, è uccidere, straziare e infliggere sofferenza a chiunque gli attraversi la strada...


Chi ha qualche capello grigio se lo ricorderà. Ancora per tutti gli anni settanta, molti film del terrore in uscita sugli schermi italiani esibivano l'avviso “Vietato ai minori di 14 anni”. Più che un divieto (comunque di norma applicato) lo si poteva considerare una sorta di strillo pubblicitario in più. Evidenziava, per cominciare, che ci si trovava di fronte a uno spettacolo di genere horror (il divieto ai minori di 18 anni era peculiare dei film a luci rosse, con pochissime eccezioni) e, agli occhi del giovane spettatore, ammantava il titolo di un'aura proibita, quasi maledetta. Significava che in quel film si versava sangue, che alcune scene non ti avrebbero fatto dormire la notte, e prometteva immagini disturbanti e trasgressive (almeno per un quattordicenne di quegli anni). Capitava spesso che su certi titoli nascessero falsi miti tra i ragazzi di età inferiore ai 14, e quindi esclusi dalla visione. Circolavano descrizioni dettagliate di scene raccapriccianti in realtà inesistenti, inventate chissà da chi secondo il proprio gusto dell'orrido e condivise con altri imberbi affamati di orrori come racconti da campeggio.

A qualcuno può capitare di ricordare tutto questo osservando la confezione di Crossed, miniserie di Garth Ennis distribuita dalla Panini Comics sigillata nella plastica. Lo strillo “Attenzione: pericolo di contagio” introduce le tematiche del racconto catastrofico e rappresenta nel medesimo tempo un ironico avvertimento. Il marchio “per un pubblico maturo” è bene in vista. All'interno della confezione c'è persino una copertina rimovibile - macabra, ma più neutra dei dettagliati disegni di Jacen Burrows - a nascondere la vera cover. Questo perché il volume non va sfogliato davanti a minori o persone non preparate. Troppo forti i contenuti. Troppo sconvolgenti, violenti, destabilizzanti. Viene proprio voglia di aprirla, quella busta. Sembra quasi che ci inviti a farlo. Sicuramente, un adolescente degli anni settanta avrebbe tentato di dare una sbirciatina...


Il divieto del cinema horror ai minori cadde in disuso a mano a mano che si avvicinavano gli anni ottanta, fatti salvi pochi titoli ritenuti particolarmente estremi e vietati ai minori di 18 anni. Si tratta in linea di massima di pellicole la cui capacità di shockare appare oggi stemperata rispetto alla sensibilità del pubblico di allora. Titoli che sdoganarono il genere splatter. Alcuni di culto, come Zombi (Dawn of the Dead) di George Romero e La Casa (Evil Dead) di Sam Raimi. Non era chiaro se il cinema di genere fosse stato promosso (estendendo il divieto alla maggiore età) a spettacolo più maturo o se il metro della restrizione stesse smarrendo il senso della misura.
Per chi ha vissuto quegli anni, non è difficile, in presenza di eventi mediatici che suscitano clamore come Crossed, tornare indietro con la memoria e riflettere su cronologie che rappresentano un filo rosso nello sviluppo dell'immaginario collettivo legato al perturbante.
Proviamo a vedere da dove si è partiti.


Nel 1973, George Romero dirige The Crazies (La città verrà distrutta all'alba), variazione sul tema della pandemia apocalittica già trattato nel precedente La Notte dei Morti Viventi. In The Crazies, un'arma batteriologica contamina accidentalmente una cittadina degli Stati Uniti causando nella popolazione esplosioni di follia feroce e atti di violenza fuori controllo.

1975: Lo scrittore anglosassone James Herbert pubblica il romanzo The Fog (Nebbia, nell'edizione italiana pubblicata nella collana Urania). Nel libro si narra di una misteriosa nebbia giallastra (anche stavolta un esperimento militare sfuggito di mano) che induce in persone e animali vere esplosioni di furia omicida, in un crescendo di crimini brutali e perversi. Celebre (con decenni di anticipo sui fatti dell'11 settembre) la scena di un aereo pilotato da un infetto che si schianta contro un edificio (episodio citato anche nel numero zero della miniserie di Garth Ennis).

1984: esce al cinema il film di Graham Baker Impulse. Una quieta cittadina è improvvisamente sconvolta da episodi di pazzia irrefrenabile. Come se qualcosa di impalpabile avesse cancellato i freni inibitori degli abitanti, spingendoli a realizzare ogni impulso attraversi loro la mente, dimentichi di ogni etica, pudore o razionalità, in un crescendo di caos e violenza.

1986: Lo scrittore statunitense David J. Schow conia il termine splatterpunk, un'etichetta sotto la quale si raccolgono autori e opere di genere horror estremo, volte a sconvolgere con la descrizione iperrealista di atti di violenza, spesso intrecciati con rappresentazioni di sesso esplicito. Lo splatterpunk si proponeva di abbattere barriere e tabù, e indurre nel lettore un profondo stato di disagio. Una sorta di provocazione artistica non troppo dissimile dal fenomeno punk degli anni settanta, quando, nei concerti, le band accompagnavano alle performance musicali gesti di rottura come quelli di urinare o vomitare sul pubblico. Anche se il termine fu coniato per la prima volta a metà degli anni ottanta, allo splatterpunk come pratica letteraria e non solo, sono riconosciute radici più antiche e ramificate. Uno dei semi è riconosciuto proprio nel romanzo Nebbia, di Herbert, che già nel '75 spingeva l'acceleratore di una violenza disinibita e ripugnante. Ma splatterpunk potrebbero essere definiti anche certi film del nostrano Lucio Fulci, soprattutto durante gli anni settanta, dove l'orrore fisico e il compiacimento sadico della morte violenta emergevano in modo visionario e ricco di dettagli orripilanti.

1991: Lo scrittore Breat Easton Ellis dà alle stampe uno dei suoi romanzi più famosi, quell'American Psycho che è nello stesso tempo ritratto impietoso degli yuppies di Wall Street e provocatoria opera di orrore, sadismo e vuoto esistenziale. Per sfrontatezza, raccapriccio e volontà di shockare, anche quest'opera viene accostata allo stile splatterpunk (sebbene la caratura letteraria di Ellis lo elevi comunque al di sopra delle etichette). Sempre durante gli anni novanta, l'underground americano ha prodotto fumetti più o meno convergenti all'estetica trasgressiva dello splatterpunk. Tra questi, sono da ricordare soprattutto i vulcanici David Quinn e Tim Vigil, che con il loro Faust: Love of the Damned realizzarono un'opera a fumetti veramente fuori dagli schemi. Allucinata, nichilista, sessualmente spudorata e palpitante di una violenza senza freni sublimata da disegni spettacolari. 
 

2008: Esce (fuori contesto, nella collana Segretissimo) il romanzo horror La croce sulle labbra, di Danilo Arona e Edoardo Rosati. Vi si narra di misteriosi riti tribali legati a un'antica divinità, di apocalisse e di un letale virus che causa esplosioni di incontrollabile follia assassina, mentre un herpes si forma sulle labbra dei contagiati fino a prendere la forma di una grottesca croce sanguinante...

Un momento! Ma non dovevamo parlare di Crossed?!


Beh, in un certo senso l'abbiamo fatto. Giacché ogni sviluppo citato conduce più o meno direttamente all'acclamata miniserie horror firmata da Ennis e Burrows per la Avatar Press (stessa etichetta sotto cui apparve il Faust di Quinn e Vigil). Pandemia. Zombi o pseudozombi. Splatterpunk come orrore estremo e sessuale. Trasgressione programmatica delle consuete autocensure del fumetto popolare. Crossed è tutto questo. Solo compresso e confezionato alla maniera dei Pringles per essere commercializzato presso i giovani lettori del nuovo millennio. Il successo dell'universo narrativo creato da Garth Ennis, cui si sono presto aggiunte nuove saghe (Crossed: Valori di famiglia; Crossed: Psicopatico) scritte stavolta da David Lapham e disegnate da Javier Barreno e Raulo Càceres, dove le tematiche nichiliste e gli effetti shock tracimano ulteriormente, merita un'analisi approfondita. La quantità di recensioni entusiaste apparse anche in Italia ci induce a riflettere ancora una volta sulla questione della forma, cui quella di originalità del tema è da sempre subordinata. 

 
Alcuni hanno descritto Crossed come intollerabile, sconvolgente, cupo e lontano dal consueto modello grottesco di Ennis. In realtà si esagera un po'. Garth Ennis, noto cantore dell'eccesso, supera gli ultimi limiti e si avventura nell'attuale concezione dell'orrido sdoganata dal genere torture porn (dove a far paura non è più tanto la morte, quanto la sofferenza che la precede). Crossed è una una cavalcata attraverso una galleria di orrori al servizio (più che della trama) delle matite eccelse di Burrows, magistrale nel realizzare tavole complesse dove succede proprio di tutto (e dove niente è piacevole). Ma non infrange nessun tabù che non sia già stato abbondantemente sfidato dai suoi antenati splatterpunk. Persino in altri contesti, George R. R. Martin nel suo Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, ha contaminato il fantasy - genere di solito abbastanza asettico - con elementi di estrema crudezza, non lesinando sull'incesto e l'infanticidio. Falso anche che l'ironia tipica di Garth Ennis sia del tutto assente. L'idea stessa di caratterizzare gli scrociati (così chiamati per bizzarra scelta della traduzione italiana) come un'orda di maniaci assassini che sembrano cloni del Joker sotto cocaina, pronti a violentare e squartare tutto quello che si muove, è di per sé goliardica. La famigerata scena del cerchio di sale, nella sua brutalità, è esemplare dell'umorismo nerissimo dell'autore irlandese. Così come il leader degli infetti, Horsecock, energumeno che si fa strada a colpi di fallo equino, urla il nome di Ennis con il ghigno sulle labbra. L'elemento tetro è riservato alle dinamiche tra i sopravvissuti e alla progressiva perdita di umanità quale prezzo per la sopravvivenza. Anche questo un archetipo consolidato, specialmente dalla filmografia apocalittica di George Romero, dove gli eroi commettono errori sciocchi e il confine tra mostri e umani si fa labile, suggerendo che i primi altro non sono che il riflesso distorto e spogliato dalle ipocrisie dei secondi.


Crossed è dunque un titolo estremamente derivativo, fortemente debitore soprattutto al romanzo Nebbia, per efferatezze e volontà di turbare. E il suo marchio sanguinante lo avevamo già visto nell'opera (italiana, pensa un po') di Arona e Rosati: il simbolo religioso della croce restituito al suo originale significato di tortura e morte. Per questo, con buona pace degli entusiasti che hanno salutato Crossed come un'opera innovativa, è difficile che i lettori più maturi restino colpiti dalle presunte trasgressioni di Ennis. Chi ha sfogliato i manga SM di Gengoroh Tagame ha un'idea più profonda di come possano essere rappresentate crudeltà e depravazione in atmosfere plumbee realmente prive d'ogni possibilità di redenzione. I meccanismi commerciali sono però quello che sono, ed ecco tornare il buon vecchio divieto ai minori, il passaparola sugli orrori insostenibili, e tutto quell'arsenale di ganci pubblicitari che tanto effetto hanno sui lettori giovani e affamati di trasgressione liofilizzata.


Allora perché Crossed piace nonostante non dica sostanzialmente niente di nuovo? Intanto perché propone al suo pubblico contenuti un tempo codificati in linguaggi meno popolari dal punto di vista commerciale. Del resto, se si guarda il cielo per la prima volta, soltanto allora ci si accorge che è azzurro, e il riciclaggio dello splatterpunk presso le nuove generazioni sembra una risorsa ancora da sfruttare. Ma Crossed affascina sopratutto perché è un fumetto realizzato con mestiere, sia da Ennis che da Jacen Burrows, veramente in gran forma. Crossed, insomma, non brillerà per novità, ma non è un fumetto da buttare o rifiutare a priori. Il punto è che le parti più interessanti sono proprio quelle più convenzionali del racconto di suspence. Superata la prima metà densa di turpitudini, i meccanismi del genere survival horror prendono il sopravvento sugli effetti repellenti, e la crescente tensione risulta ben condotta. Furbo (e disturbante) l'espediente di confondere vari tasselli temporali, e di mostrarci l'orrenda fine di alcuni personaggi per poi narrare da dove venissero, chi erano e che cosa speravano, infondendo maggior senso di orrore al destino che gli abbiamo già visto subire. Un paio di twist narrativi sono davvero potenti, anche se uno è forse troppo telefonato e si sarebbe giovato di un crescendo più insinuante anziché limitarsi a una rivelazione inattesa quanto improbabile nelle sue modalità. Crossed, dunque, funziona quanto basta e ha tutte le carte in regola per piacere soprattutto ai giovani affascinati dalle versioni contemporanee di pandemie, zombi, orrori urbani e la cifra provocatoria che segue l'horror estremo già dal secolo scorso. Ce lo dice il successo di vendita della serie, la produzione dei suoi capitoli successivi, la nascita di una nuova serie mensile (Crossed: Badlands) ancora firmata da Ennis cui succederà Jamie Delano, e il fatto che si intraveda all'orizzonte anche il progetto per un film.



Un'ultima, ironica, riflessione. Garth Ennis decide di rompere... gli argini, e osare ciò che non aveva osato prima, portando in scena sangue e sesso, sesso e sangue... in un'orgia di orrore che risulti quanto più perturbante per un pubblico generalista. Ma è davvero possibile che per un maschio eterosessuale, la sorte più spaventosa che si possa concepire sia... quella cosa lì?! Come un feticcio, la sodomia violenta appare quasi in ogni splash page, simile a una piccola firma beffarda. Quasi sempre presente, nelle magistrali tavole del bravissimo Jacen Burrows, anche ai limiti del subliminale. Ci diverte pensare che anche questo possa essere letto in maniera simbolica. Il vero valore di Crossed, come della maggior parte delle letture, consiste nell'uso che ne viene fatto. E' il sottile confine tra meccanismo commerciale (che ci riduce a meri acquirenti da spremere) e spunto per una lettura storica del genere horror, che possa far scoprire al lettore giovane un panorama vasto e variegato, pieno di regioni oscure e seducenti da esplorare.
Come provocazione, o meglio, come sfida culturale, questa l'accettiamo di buon grado.

 


Questa recensione è stata pubblicata anche su FantasyMagazine.


[Articolo di Filippo Messina]