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sabato 17 aprile 2021

Antebellum

 

Siete tra quelli cui piace il "politicamente scorretto"? Che pensano sia figo?

Ok. "Antebellum", allora, è il film che fa per voi. Dico questo perché il film, opera prima del duo di registi Gerard Bush e Christopher Renz, picchia durissimo ed è politically incorrect dall'inizio alla fine. Non solo. Lo è nel modo giusto. Quello che piace a me. Quando questa visione si applica alle categorie privilegiate, forti, e non a quelle diseredate e messe in un angolo dalla storia. E' scorretto anche nel portare in scena le dinamiche del contrappasso, nel rifiutare soluzioni concilianti e nel suggerire soltanto paura e rabbia. Le etichette di genere che accompagnano "Antebellum" sono tre. "Drammatico", "Thriller" e "Orrore". Credo di potere affermare che sono tutte e tre veritiere. Il film di Bush e Renz passa da un genere all'altro senza che quasi ce ne rendiamo conto, e lo fa assestando calci nello stomaco mica da ridere. Il punto è che "Antebellum" è uno di quei film di cui non è possibile parlare veramente senza sciupare tutto. Sarebbero sufficienti quattro parole in fila per guastare l'esperienza immersiva e ansiogena che si propone. Insomma, è uno di quei film che sarebbe meglio vedere senza sapere nulla della trama. Magari anche niente dello scenario, in modo da affrontarlo e lasciarsi travolgere dai suoi sottotesti nel modo più neutro possibile. Anche se l'esperienza, se siete sensibili, può essere dura. E' stato scritto anche che il film soffre, forse, di una cifra stilistica fin troppo estetizzante. Elemento che potrebbe impoverire la forza viscerale di alcune tra le scene più disturbanti. Può darsi. Di sicuro non ci troviamo di fronte a un film perfetto. Ma io penso che "Antebellum" svolga benissimo il suo sporco lavoro di horror politico. Fa stare male. Ti resta in testa. E ti spinge a chiederti se tra le righe non ci sia tanto, troppo di corrispondente alla nostra realtà contemporanea. Una realtà che spesso ti induce a pensare che il peggio sia passato, quando il passato (come recita la citazione di William Faulkner in apertura) non muore mai, si annida tra noi, e detta l'agenda al presente in modo spaventoso.

mercoledì 3 marzo 2021

Paranormal: dall'Egitto con... terrore


«Se la mente ti fa dei brutti scherzi... Faglieli anche tu!»

"Paranormal" è una serie Netflix egiziana a tema soprannaturale, tratta da una serie di romanzi, molto popolari in patria, scritti da Ahmed Khaled Tawfik. La serie è partita in sordina, ma grazie a un discreto passaparola sta pian piano conquistando una discreta fetta di pubblico. All'estero pare essere andata molto bene, e già si discute se confermarla per una seconda stagione. Nel panorama delle serie TV (o streaming che dir si voglia), dominato decisamente dalla cultura anglofona, "Paranormal" è una proposta davvero bizzarra. Innanzitutto per la sua ambientazione, discretamente diversa da quelle cui siamo abituati, e per il modo di intendere il soprannaturale, il misterioso e l'horror, qui rappresentato riferendosi, volta per volta, a leggende popolari in Egitto, spesso mutuate anche dalla cultura greca. Il plot di "Paranormal" si fonda molto sulla caratterizzazione del suo protagonista, il dottor Refaat Ismail. Personaggio che più antieroico non si può. Medico razionalista schivo, misantropo, nevrotico, il cui mal di vivere ha origine, però, in un trauma infantile legato a qualcosa di tuttora inspiegabile. Esperienza che farà da perno all'intera serie e alle avventure, apparentemente indipendenti, ma in realtà collegate da un sottile filo esoterico, che sconvolgeranno la vita del dottore e di tutta la sua famiglia.


"Paranormal" è quindi un racconto di fantasmi, di magia e di mitologia, con sprazzi horror e una curiosa alternanza tra i toni del dramma e quelli della commedia. L'attore Ahmed Amin, che interpreta Refaat, infatti, è noto in patria per essere soprattutto un comico. Ma il suo personaggio si arricchirà di più strati di episodio in episodio, così come l'avventura si farà sempre più nera e inquietante.
Una piccola, interessante sorpresa, quindi. E' probabile che molti storceranno il naso per la povertà degli effetti visivi (non se ne può più, gente. Seguite il cuore delle storie, è importante anche quello). Eppure "Paranormal" è una perla da scoprire tra le tante proposte, fatte con lo stampino, dal colosso dello streaming. Umorismo nero, paura, personaggi ben caratterizzati. E la costruzione di una mitologia interna che, se la serie sarà confermata per nuove stagioni, promette di crescere ulteriormente. Il mondo è grande. Le storie possono essere raccontate in molti modi diversi, in contesti molto variegati. E "Paranormal" è un ottimo biglietto da visita. Auguriamoci che a questo esperimento (a mio parere riuscito) ne seguano altri altrettanto interessanti.

lunedì 26 ottobre 2020

Ripensando a The Strain...


Un recupero tardivo, da parte del sottoscritto, quello dell'intera serie TV ispirata a "The Strain", la trilogia letteraria scritta da Guillermo Del Toro e Chuck Hogan. Quattro stagioni che adattano tre romanzi horror dalle venature fantascientifiche, e che particolarmente si prestano al clima autunnale di chi sta aspettando Halloween. La serie si era conclusa già da un po', tra l'altro passando discretamente sotto silenzio nella provincia virtuale dei consumatori seriali. Uno di quei prodotti che macinano una stagione dopo l'altra, arrivando alla loro naturale conclusione senza suscitare clamore, più che in sordina. Lontanissimi dal berciare suscitato da ogni episodio di "Game of Thrones" o di "The Boys", ma anche da titoli più di nicchia, come "Doom Patrol". Forse non sufficientemente pubblicizzato. Forse sottovalutato per via del tema abusato. O forse perché non ha neanche l'ombra di una componente "teen".

Un rimosso mediatico che per lungo tempo ho ignorato anch'io. Anche se forse per motivi differenti ai più. C'è da dire che quando la serie ha esordito (in America su FX, in Italia su Fox) avevo da pochissimo finito di leggere tutti i libri della saga letteraria. I vampiri creati da Del Toro e Hogan non avevano più segreti per me. Ogni personaggio aveva incontrato il suo destino e io ero decisamente satollo. Inoltre, chi mi segue su Youtube sin dall'inizio, forse ricorda quanto mi fece incazzare la girata fantasy (posticcia e contraddittoria) presente nell'ultima parte del terzo romanzo (la spiegazione sull'origine degli strigoi), e il mio rapporto con l'intero corpo narrativo della trilogia ne era uscito vagamente compromesso. Aggiungiamo che avevo completato la lettura dei romanzi in uno dei periodi in assoluto più brutti della mia vita, e il quadro sarà completo. "The Strain" per me era stato consegnato alla memoria. Non aveva nessuna voglia di ricominciare da capo e farmi raccontare tutto in live action. Non in quel momento. Ma il tempo passa, e le cose cambiano.


A distanza di qualche anno, a serie terminata, i tempi erano evidentemente maturi. Senza sapere neanche bene perché, probabilmente influenzato dal parere positivo di altri stimati cultori, ho deciso di dare una chance al "The Strain" di FX, e alla fine l'ho consumato in maniera quasi bulimica, bevendomi un episodio al giorno fino a esaurire tutte e quattro le stagioni. Attualmente, quando si parla di serie TV, sento ripetere sempre più spesso aggettivi come "Perfetto" e "Geniale". E altrettanto spesso non riesco a mettermi nei panni di chi le pronuncia. Bene. Nel caso di "The Strain" non c'è proprio nulla né di geniale né di perfetto. Anzi, è un prodotto pieno di imperfezioni. E a tratti qualche buco logico rischia di ingoiarci per non sputarci più. Eppure è un serial che si fa vedere dannatamente bene. Forse proprio per la sua onestà, la sua capacità di mantenere alto il ritmo, l'assenza di pretese e l'uso di personaggi caratterizzati molto bene. Quei buchi, quindi, alla fine appaiono come dei nei su un corpo che esteticamente, nel suo complesso, si difende benissimo e riesce a risultare più che attraente. Chiedere altro a una serie TV è lecito. Ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. "The Strain" intrattiene, cattura e ti spinge ad andare avanti. Grazie anche alle numerose libertà che si prende rispetto ai romanzi. Cosa, per una volta, saggia e tutto sommato riuscita. Giusto quello che serviva a me per riavvicinarmi a una storia che avevo già approfondito in forma diversa.


Parliamo di uno spunto horror che più classico non si può. L'aereo che atterra a New York e subito interrompe i contatti, spegne le luci e rimane inerte come un antro buio e silenzioso rimanda dichiaratamente a uno degli episodi più iconici del "Dracula" di Bram Stoker. Parliamo di vampiri, dunque, ma i succhiasangue di Del Toro e Hogan hanno qualcosa di diverso da quelli che siamo abituati a frequentare. Niente di romantico, niente di sensuale. Il vampirismo è visto più come una malattia, un virus (e sì) altamente trasmissibile, che muta la fisiologia del corpo ospite dando vita a una forma predatrice che è anche veicolo per ulteriori contagi. I romanzi di Gullermo Del Toro e Chuck Hogan, soprattutto il primo, sono fortemente debitori allo stile di Michal Chricton, e al suo approfondimento scientifico (o fantascientifico), legato a filo doppio alla storia che sta raccontando. I vampiri, insomma, sono descritti in modo molto fisico, come una malattia da combattere. Ed è per questo che tra i principali protagonisti troviamo subito un'equipe di epidemiologi. Ma anche uno zelante e pragmatico disinfestatore specializzato nella derattizzazione.
L'attore inglese David Bradley, sempre grande, è praticamente nato per interpretare Abraham Setrakian, l'anziano rigattiere ebreo, sopravvissuto all'olocausto, che sembra attendere da tempo l'insorgere di un male che ha già incrociato il suo cammino in passato. Inoltre, devo ammettere che uno degli elementi che mi avevano finora tenuto lontano dalla serie era la presenza di Kevin Durand. Attore che, dai tempi di "Lost", per qualche motivo mi ha sempre ispirato un'epidermica antipatia, e che non vedevo tanto nei panni del disinfestatore ucraino Vasily Fet. "The Strain" è stata invece l'occasione per riconciliarmi con Durand, e il suo Fet, per quanto caratterizzato in modo un po' diverso dalla sua controparte cartacea, funziona benissimo. Ma tutto il cast è al posto giusto. E mi sento di dire che la versione televisiva riesce a lasciarsi alle spalle alcune lungaggini presenti nei libri e ad avanzare agile lungo quattro stagioni dicendo tutto quello che aveva da dire senza perdersi per strada.
L'episodio pilota, diretto dallo stesso Guillermo Del Toro, è forse quello più vicino alle atmosfere originali. Ma le deviazioni (meritevoli) dal percorso sono probabilmente riconducibili allo stesso regista messicano, show runner dell'intera serie assieme al corresponsabile Chuck Hogan, scrittore con cui aveva firmato la trilogia. Magari, questo, perché Del Toro funziona meglio sul set che alla scrittura di un romanzo. Non lo so, ma è un'ipotesi da considerare. Infatti, la serie glissa sulla parte mistica (stucchevolissima) che tanto avevo odiato nell'ultimo libro. Proprio non se ne fa menzione (emmenomale!). Aggiungiamo qualche personaggio inesistente nei romanzi, altri che vedono lievitare di molto il loro ruolo (Ruta Gedmintas e Samantha Mathis sono proprio brave). Qualche risoluzione differente, caratterizzazioni rivedute... e "The Strain" si dimostra un prodotto fruibile e godibile sia da chi ha apprezzato i libri che da chi li ha trovati appena sufficienti. Niente che faccia gridare al capolavoro, ma al prodotto di qualità sì. E con il suo bel carico di difetti. Ma parliamo di quei difetti che ti fanno voler bene a un caro amico. Insomma, ho fatto pace con "The Strain". Guillermo Del Toro rimane l'uomo più bello del mondo, e i suoi vampiri "virali" sono tornati per restare definitivamente nel mio immaginario.

martedì 29 settembre 2020

Seoul Station

 


Finalmente ho trovato il tempo per recuperare la visione di "Seoul Station", lungometraggio animato diretto da Yeon Sang Ho. Per chi non lo sapesse, si tratta del prequel animato di "Train to Busan", film coreano in live action del 2016 diretto dallo stesso regista, e decisamente uno dei migliori zombi-movie degli ultimi vent'anni. "Seoul Station" uscì a distanza di un mese dal film precedente e in seguito fu allegato all'edizione in home video. Possiamo definirlo un prequel, ma anche un altro episodio ambientato nello stesso universo narrativo, in quanto ci narra lo scoppio dell'epidemia zombesca da un'altro punto di vista. "Train to Busan" ci mostra il dilagare degli zombi, famelici e centometristi, sul treno diretto a Busan, e gli sforzi per sopravvivere dei passeggeri in viaggio su un convoglio infestato da mostri carnivori. "Seoul Station" si svolge in città, partendo dalla stazione e da quanti vivono nei suoi paraggi. Lo sviluppo è quello classico del survival horror. Un pugno di personaggi, le dinamiche tra loro, e l'incertezza su chi sopravviverà e come. Ma a differenza di "Train to Busan", focalizzato sui protagonisti e le loro caratterizzazioni, "Seoul Station" punta di più su un contesto generale, in questo caso decisamente degradato e pessimista. L'assenza di empatia, il pregiudizio, l'individualismo. Una corsa a perdifiato per la sopravvivenza in un mondo che era già cupo e ostile prima ancora dell'arrivo della piaga zombi. Un gioiello di animazione che conferma la capacità di Yeong Sang Ho di creare situazioni tese come corde di violino e fare partecipare lo spettatore al destino dei personaggi. A questo punto, i dubbi su "Peninsula", il seguito appena uscito in Corea di "Train to Busian" non sussistono. Sarà una corsa a perdifiato, con le viscere annodate, e quando penseremo di sapere cosa ci aspetta, ci troveremo davanti all'inatteso.



giovedì 4 giugno 2020

In the Flesh



"In the Flesh" è una serie TV inglese trasmessa dalla BBC per due sole stagioni a partire dal 2013. Dopo un'apocalisse zombi che ha mietuto numerosissime vittime, l'umanità ha trovato il modo di arginare il problema e ricominciare. La vera conquista dovrebbe essere il fatto che gli scienziati hanno trovato una cura per i morti viventi. Un cocktail di farmaci che somministrati in modo regolare riattivano il loro cervello, ripristinando la loro personalità, i ricordi, le emozioni, e sopprimono la frenesia di nutrirsi della carne dei vivi. I morti restano morti, ma psicologicamente tornano del tutto umani, e possono essere reintegrati nella società e nelle loro famiglie. Almeno, in teoria. Considerato che i non morti curati conservano i ricordi di quando vagavano uccidendo e sbranando le persone vive, e che molti tra i viventi, alcuni dei quali si sono distinti nella lotta alla piaga zombi, vedono in loro soltanto pericolose mostruosità da estirpare, e non reduci di una terribile malattia, ora chiamata Sindrome del Decesso Parziale. Questo non può che suscitare un clima di tensione, di sospetto, paura e odio nei confronti dei nuovi diversi. E Kieren, giovane che ha commesso suicidio prima dell'epidemia, risorgendo come non morto antropofago, e oggi restituito alle cure della sua amorevole famiglia, dovrà affrontare molti demoni, interiori ed esterni. In un quadro sociale molto complesso, perché dove ci sono mutanti e discriminazione, esiste sempre anche un Magneto... E' evidente quanto questa serie inglese (cancellata dopo due stagioni e rimasta inedita nel nostro paese) abbia ispirato "The Cured", film di David Freyne del 2017, che ruba letteralmente tutti gli spunti fondamentali di "In the Flesh" (sebbene nel film di Freyne non si parli di zombi, ma piuttosto di infetti che manifestano la stessa violenza cannibale). Il punto cruciale, però, è che la serie TV creata da Dominic Mitchell centra ogni bersaglio là dove "The Cured" si limita ad accennare, e si arena afflosciandosi su se stesso. Già l'episodio pilota di "In the Flesh" (sì come il brano dei Pink Floyd) dice tutto in un'ora scarsa di minutaggio, presentando metafore sì già viste, ma rese con una forza emotiva che travolge. In "In the Flesh" c'è dramma, thriller, e persino momenti di reale commozione. La necessità dei non morti recuperati di vestire un make up che camuffi il loro aspetto cadaverico, e delle lenti a contatto che nascondano i loro occhi spettrali, è solo il punto di partenza in una parabola sulle diversità (al plurale, attenzione...) e le contraddizioni di un mondo che si sforza di essere giusto, ma che non riesce a esserlo davanti a un cambiamento costante che fa piazza pulita di regole, etica, e aspettative di vita. I motivi (non subito svelati) che hanno condotto Kieren al suicidio hanno una forte importanza, così come la rappresentazione di maschere sociali che non hanno niente da invidiare al fondotinta degli zombi recuperati. E forse sono anche peggio. Ancora una volta la soppressione del cervello diventa simbolo. Simbolo di sottomissione e di azzeramento del dissenso e delle individualità. E per una volta, la seconda vita dei morti viventi può essere intesa come una possibilità, dolorosa, difficile, ma anche preziosa, di provare a vivere come un tempo non potevamo. Si potrebbe dire che già "True Blood" (serie fin troppo bistrattata oltre tutti i suoi oggettivi difetti) utilizzava i vampiri come simbolo di diversità. Ma "In the Flesh" ha qualcosa di diverso, e di molto british. Si prende maledettamente sul serio, e picchia duro rinunciando all'etichetta di horror per sconfinare in un genere difficile da catalogare. Un vero peccato che da noi sia rimasta del tutto inedita mentre si macinano e si traducono quattro stagioni di "13".

mercoledì 6 maggio 2020

All the Boys Love Mandy Lane



"All the Boys Love Mandy Lane" è uno slasher. Partiamo da questo assunto. Un film di genere thriller-horror di cui oggi anche i sassi conoscono le regole. Il film di esordio di Jonathan Levine (finito di girare nel 2006, ma rimasto congelato a lungo a causa di beghe produttive, uscito addirittura nel 2013, apparso soltanto in qualche festival e presto riciclato per il mercato home video) non è un capolavoro. Anzi, forse non è neppure un prodotto del tutto riuscito, e in parte, per una buona parte di minutaggio, può risultare persino irritante. Per me, almeno è stato così. Un film davvero breve (dura un'ora e venti minuti) che si presenta con tutti gli stereotipi incastrati al posto giusto, per poi disattenderli uno dopo l'altro e farci chiedere che cavolo stiamo guardando e perché. "All the Boys Love Mandy Lane" è anche Amber Heard. La Mandy Lane del titolo. E' la sua presenza, il suo incedere, il suo essere tra noi (e nel film) pur dando la sensazione di non appartenere a questa terra. Mandy Lane è una final girl. No. Mandy Lane è LA final girl. Un archetipo del genere che lo attraversa, lo calpesta e fa suo un ruolo assegnatole dal destino. "All the Boys Love Mandy Lane" è un altro di quei cazzo di film dei quali non puoi parlare veramente senza ammazzare tutte le ragioni per vederlo. E questo sì che è frustrante. Perché sebbene la lampadina sulla mia testa si sia accesa 30 secondi esatti prima del twist in cui il film svolta e mostra la sua vera identità, l'anima di questa fiaba nera (ah, ricordiamoci! E' uno slasher!) risiede tutta lì. "All the Boys Love Mandy Lane" non è "Scream". La trilogia di Wes Craven che aveva elencato, decostruito e disinnescato i cliché del genere, si basava molto su una componente metafilmica e un tocco abbondante di humor nero. Il film di Levine si prende sul serio da morire. Ha un'aura sporca, da pellicola anni 70. Sembra quasi un film fuori dal tempo, per certi versi. Si rischia di non riuscire a guardarlo fino alla fine, tanto può sembrare scontato. Eppure... Possibilmente, per cogliere certi aspetti e notare tutte le libertà e le sovversioni giocate sul genere, sarebbe necessario vedere il film una seconda volta, ma la sensazione morbosa che lascia addosso quando iniziano i titoli di coda sulle note della romanticissima "Sealed With a Kiss", non incoraggia a farlo tanto presto. E' difficile anche dire se il film mi sia piaciuto o meno. Diciamo che mi sono piaciute le sue intenzioni e lo sforzo per rappresentarle. E in fondo, non è poco, considerato che parliamo di un piccolo film che si dimostra malatissimo. Spiazzando lo spettatore a metà film, facendogli cadere le braccia (e le difese) per poi assestargli un calcio da mulo. "All the Boys Love Mandy Lane" è un film tuttora inedito in Italia. Difficile da reperire, e questo forse ha contribuito ad accrescere la sua nomea underground di opera horror "diversa" e spiazzante. Amber Heard, oggi, forse non è in cima alle simpatie di molti, ma in questo film è davvero splendida sotto tutti i punti di vista. Del resto "Tutti i ragazzi amano Mandy Lane", e l'unica certezza è che questo non porterà a niente di buono.

lunedì 4 maggio 2020

I morti non muoiono [di Jim Jarmush]

Non sono sicuro di avere capito bene "I morti non muoiono" di Jim Jarmush. Nel senso che non sono certo di avere compreso del tutto che cosa Jarmush si proponeva di fare con questo metafilm a base di zombi, comedy, spunti satirici, omaggiante un genere, il proprio cinema passato e... si direbbe altro ancora. Non posso dire neppure che non mi sia piaciuto. Forse perché "I morti non muoiono" è talmente carico di spunti simpatici, di attori mostruosi e camei illustri, che semplicemente ti bagna le polveri del dissenso e ti induce comunque a un atteggiamento indulgente. Eppure, quello che penso sia più ragionevole dire è... che non credo di averlo capito. Limite mio, probabilmente, che non riesco ad allineare in modo perfetto le tessere di un mosaico citazionista e allegorico in cui i temi centrali sono già stati talmente sfruttati da risultare ovvi. La cosa che mi affascina di più, paradossalmente, è proprio la scelta di adottare un ritmo compassato. Non lento, ma di una calma esasperante (rappresentata in modo encomiabile dall'imperturbabile personaggio di Bill Murray) che praticamente ti conduce attraverso l'inizio dell'apocalisse con una rassegnazione inedita. Forse è proprio questo il bandolo della matassa. Il fluire del racconto filmico, affidato a un'ironia placida che non si scompone neppure nelle scene in cui le urla, il sangue e la morte dovrebbero farla da padrone. Un mondo che non finisce con fragore, ma con un gemito sommesso e quasi un sorriso cinico, come se l'intero pianeta, nel soccombere alla piaga che lo sta distruggendo, anziché urlare, mormorasse sogghignando «Che fregatura, eh!» Se l'intento era quello di spiazzare, con me l'obiettivo è stato sicuramente centrato. Forse, un tema così abusato, già filtrato più volte dalla commedia, e persino cannibalizzato da altri generi, non può più essere rappresentato se non con distacco. Il disincanto di chi ormai conosce non solo le regole del gioco, ma ogni possibile sviluppo e l'inevitabile finale. Un distacco emotivo e formale, perché ormai certe storie non si possono più raccontare fingendo di crederci. Oppure si possono descrivere soltanto ammettendo di non crederci più, sapendo che il giocattolo è irrimediabilmente rotto, e arrendendosi ormai alla noia di una parabola nera che avrà comunque ragione delle nostre resistenze. Vediamo il baratro, contiamo i passi, ma sappiamo di non essere in grado di fermarci. Possiamo solo accettare la fine, e andarle incontro rassegnati. Nessun twist ci illuderà con un'effimera ondata di adrenalina. Nemmeno il segreto (di Pulcinella, ormai) che i diversi, gli strani, rivelano risorse in più in situazioni di emergenza, e che forse è proprio la loro diversità, la loro stramberia, a condurli in salvo, lasciando gli omologati, i normali al loro destino infausto. E anche in questo caso, mi accorgo, non posso fare a meno di azzardare interpretazioni, anche quando ritengo di non avere ben capito. Ma mi resta la sensazione che "I morti non muoiono", con la sua placida, quasi inerte, ironia citazionista, sia un film di un pessimismo devastante.

venerdì 1 maggio 2020

CREEP [di Patrick Brice]


Sarebbe molto facile elencare tutto quello che non persuade in "Creep", piccolo film thriller indipendente diretto da Patrick Brice, interpretato dallo stesso accanto a Mark Duplass e scritto da entrambi. A partire dal titolo, abusato e confondibile con più pellicole horror del passato. Dalla sua natura di POV (point of view) o Found Footage, se preferite, in cui in più occasioni, e come in molti altri film che adottano questo espediente, è poco plausibile che la telecamera continui a funzionare e stia inquadrando determinati accadimenti. Punti deboli, quindi, talmente scontati da passare in secondo piano, e farci chiedere che cosa ci spinge a seguire il film di Brice e Duplass (è il primo a firmare la regia, ma "Creep" è una creatura figlia di entrambi) fino all'ultimo sconcertante fotogramma. Uscito con il marchio della Blumhouse, etichetta horror prolifica che non disdegna di produrre esperimenti bizzarri e a basso costo, "Creep" segue in apparenza un percorso lineare, ma che diventa in fretta meno prevedibile di quanto potrebbe sembrare e presenta anche un paio di rovesci spiazzanti. Un cameraman risponde a un annuncio per un lavoro che lo terrà impegnato una sola giornata in un cottage fuori città, e fa la conoscenza di un uomo eccentrico che desidera realizzare una sorta di diario filmato per il figlio che deve ancora nascere. E' subito chiaro che le cose non sono come sembrano, ma quello che importa in "Creep" non è tanto la destinazione, ma il viaggio e le sue emozioni. Due attori soltanto in scena per tutto il tempo, mentre la situazione si fa sempre più strana. Imbarazzante. Inquietante. L'attore Mark Duplass si trova a fare da mattatore in un crescendo drammatico in cui l'occhio della telecamera è piantato prevalentemente su di lui, disegnando un personaggio straniante e polimorfo, in grado di instillare dubbi nel suo interlocutore e nello spettatore. La recitazione e il senso opprimente di minaccia sono le vere ragioni d'essere di "Creep", in cui lo spunto da Found Footage è solo un mero pretesto per un progressivo sprofondare nella follia. Un gioco psicologico che a molti sembrerà assurdo, ma che presenta disturbanti parallelismi con dinamiche reali e tragiche.
Non un capolavoro, forse, ma sicuramente un esperimento di horror da camera indipendente tra i più interessanti, nonché un'ottima prova attoriale. Esistono già due seguiti, il che mi rende parecchio curioso. Certo è che la povertà di mezzi spesso aguzza l'ingegno, e che le performance da parte di attori di talento possono da sole rappresentare l'anima di un film. Riuscendo a inquietare, peraltro. Naturalmente, se ne sente parlare veramente poco. Ma questo non deve sorprenderci.

domenica 26 aprile 2020

Spoorloos (cioè The Vanishing, l'originale)


Fa davvero uno strano effetto scoprire oggi "Spoorloos", film franco-olandese diretto da George Sluizer nel 1988, tenendo ben presente il remake statunitense che lo stesso regista avrebbe diretto qualche anno dopo, nel 1993, con un budget più alto, qualche nome di richiamo e il titolo "The Vanishing ". Parliamoci chiaro. Che la versione originale fosse più riuscita era qualcosa che si sentiva dire da tempo. Dalla critica che non accolse con molto entusiasmo il rifacimento e dai pochi fortunati che avevano avuto la possibilità di vederlo. In effetti, il confronto con la pellicola che Sluizer realizzò con Kiefer Sutherland, Jeff Bridges e una quasi esordiente Sandra Bullock nei ruoli principali, accanto alla prima versione fa l'effetto di una copia molto sbiadita e dalla personalità annacquata. Il vero pregio di "Spoorloos" ("Senza Traccia", ma anche la prima versione aveva avuto come titolo "The Vanishing" per il lancio internazionale) è che riesce a essere disturbante nonostante lo scialbo remake americano abbia ormai svelato il punto di arrivo della storia. Anzi, è un film malsano e angosciante proprio perché SAPPIAMO dove il racconto sta per andare a parare. La vicenda di Rex e Saskia (così si chiamano i protagonisti, a differenza della rilettura USA, in cui si chiamano Jeff e Diane) si apre subito con presagi funesti di quello che avverrà, e la semplicità quadrata del tutto, una conduzione dove alla fine tutti i pezzi del mosaico vanno al loro posto con una perfezione devastante, fa vivere allo spettatore un incubo cinematografico che picchia duro nella forma oltre che nella sostanza, magari già nota ai più. E non si tratta solo del fatto che, a differenza della versione pensata per il pubblico americano, il finale è agghiacciante e per niente consolatorio (una storia del genere non potrebbe proporre niente di diverso). Sarà forse la presenza dell'attrice Johanna ter Steege, che riesce a farci empatizzare con il suo personaggio in pochi minuti, e a rendere un vero pugno nello stomaco quello che le succederà. Qualunque cosa le succeda, che lo si sappia o no. Sarà la presenza di un luciferino Bernard-Pierre Donnadieu, che riesce nell'impresa non facile di eclissare la prova (tutto sommato manierata) di Bridges nel ruolo del villain del film. In parole povere, la curiosità cinefila potrebbe temere che il meccanismo di "Spoorloos - The Vanishing" sia disinnescato dallo spoiler storico generato da un remake non all'altezza. Cosa che potrebbe portare qualcuno a rinunciare di recuperarlo, ma non è così. Il film, di difficile catalogazione (thriller, drammatico, horror?), ha parecchie cartucce da sparare. Vanno tutte a segno e fanno un male cane. Insomma, vale la pena far finta di non ricordare il "The Vanishing" americano, che - ricordiamolo - fu diretto con mano meno felice dal medesimo regista olandese, e scoprire la prima versione. Con la consapevolezza che sarà un viaggio affascinante che ci farà stare malissimo.

giovedì 26 marzo 2020

The Invisible Man



In questo momento buio, la distribuzione di tanti film è rimandata a data da destinarsi. Ma qualche scelta differente fa discutere. La Universal ha infatti deciso di anticipare l'uscita per lo streaming di una manciata di film. "Emma", "The Hunt" e "The Invisible Man". Per quanto sia un peccato che film interessanti e attesi non possano attualmente essere visti in sala, è consolatorio poter fruire di alcune novità nonostante il periodo dell'isolamento. C'era, infatti, una discreta aspettativa circa il nuovo "Uomo Invisibile" di Leigh Whannell. Pellicola che si presenta come un possibile nuovo inizio del progetto che doveva intitolarsi "Dark Universe", e si proponeva di essere una rivisitazione moderna dei classici horror che la Universal produsse a partire dagli anni 30 del ventesimo secolo. Parliamo, quindi, di una nuova versione de "L'Uomo Invisibile" di H. G. Wells e dell'omonimo film diretto da James Whale nel 1933 con Claude Rains protagonista. Quel che va detto subito è che il film di Whannell (che aveva diretto il piacevole "Upgrade") non è esattamente un remake dell'opera di Whale. Non potrebbe, non vuole esserlo. Possiamo dire che le somiglianze con il film del 1933 e il romanzo di Wells sono soltanto il concetto dell'invisibilità e il nome del villain. Detto questo, il film di Whannell naviga su ben altre rotte, e per una volta il panorama è molto interessante. Un modo per reimmaginare il topos narrato da Wells alla luce di una sensibilità aggiornata, rendendolo specchio di una realtà inquietante. “The Invisible Man” si potrebbe ascrivere alla fantascienza, ma la scelta estetica vira decisamente nei territori dell'horror. Di un horror sociale, peraltro, simbolico, in cui la paura e il sangue dipingono mali contemporanei. Bastano i primissimi dieci minuti di “The Invisible Man” per mettere un'ansia insostenibile. Una sequenza quasi muta, ma che comunica più di una valanga di parole, descrivendo in poco tempo un inferno e un senso di angoscia che già da soli sono sufficienti a suscitare nello spettatore un disagio incredibile. E il film è soltanto all'inizio.
E' facile prevedere che, a visione ultimata, non mancheranno le segnalazioni di qualche buco logico, ma per una volta... lasciamoli perdere. “The Invisible Man” va visto come un'allegoria da guardare in prospettiva non come lavoro geometrico. E da quel punto di vista funziona alla grande. Ha ragione da vendere chi lo ha paragonato, per forma e intenti, a “Babadook” di Jennifer Kent. Anche in quel caso, l'orrore era un pretesto per parlare di un antico male del quotidiano, un incubo da vivere e da riconoscere come proprio... o del proprio vicino. E questo “Uomo Invisibile” è uno dei terrori peggiori del nostro tempo, proprio perché non viene visto, non è riconoscibile, non ha un volto, e di conseguenza non esiste. O così vuol farci credere. Così ci fa comodo credere. Elisabeth Moss (vista ne “I Racconti dell'ancella”) rappresenta il punto di vista (!) e vero cuore del film. La sua espressività, suscita un'empatia cruciale che deve fare riflettere. La minaccia narrata dal film, che per una volta non riguarda un genio folle che usa la sua scoperta per andare alla conquista del mondo, può essere letta in modo più o meno circoscritto o in modo più o meno esteso. E quello che vediamo... Anzi, quello che non riusciamo a vedere, fa paura. Maledettamente paura.


lunedì 23 marzo 2020

El Hoyo (Il Buco)


Il film "El Hoyo" presentato da Netflix, rappresenta uno di quei casi in cui gli odiati servizi di streaming possono rendere possibile la visione di opere interessanti, che magari non avremmo visto e che potrebbero giacere nel dimenticatoio per molto tempo. Al di là di queste riflessioni, "El Hoyo" (intitolato "The Platform" per il mercato internazionale, e in Italia "Il Buco", con lungimiranza incommentabile), sta facendo discutere molta gente. Tanti ne sono entusiasti. Altri sconcertati. Qualcuno ritiene di riconoscere influenze di opere già viste. Altri ancora ne lodano gli intenti metaforici, accettando gli aspetti più esoterici di una trama che lavora in sottrazione. Opera prima del regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia, "El Hoyo" (perché non tradurlo "La Fossa", cazzo?!) è una vera sorpresa, che magari non brillerà in modo particolare per originalità, ma che se recupera semi del passato lo fa con criterio, stile, e ottime intenzioni in larga parte ben realizzate. Non è semplice parlarne. In primo luogo perché è uno di quei racconti di cui è meglio scoprire il meccanismo poco per volta. In seconda istanza, perché presenta un curioso e riuscito mix di generi pur non essendo (a sorpresa) un vero film di genere. Potremmo parlare di fantascienza distopica, di horror (sotto parecchi aspetti), di thriller, e di apologo politico. Ma anche mistico, filosofico. "El Hoyo" è anche un ottimo esercizio di stile in cui un pugno di attori, tutti molto bravi, riescono a creare un microcosmo angosciante da uno scenario ridotto e da un'idea semplicissima nella sua crudeltà. Chi conosce e apprezza il teatro dell'assurdo di Samuel Beckett potrebbe avere qualche dejavu da incubo. La costrizione, il senso di vuoto morale, la mostruosità di personaggi che hanno perso quasi del tutto la loro umanità. Finita la visione del film, è lecito interrogarsi in quale misura il messaggio (neanche tanto) nascosto verta sulla rappresentazione allegorica di un ordinamento sociale in classi dove l'incapacità di collaborare destina tutti all'abisso o sulla ricerca di una ragione per andare avanti nonostante tutto, nutrendo la speranza nel domani per i posteri se non per se stessi. Ma un'opera veramente riuscita formula domande e incita alla riflessione più che elargire risposte. E "El Hoyo" questo lo fa. Lo fa dannatamente bene, mettendo in scena un dramma dove conta molto il dialogo, la parola e le atmosfere. Davvero un bell'esordio per un regista che incoraggiato su questa strada potrebbe offrire meraviglie in futuro.

lunedì 16 marzo 2020

Die Farbe (Il Colore)


"Die Farbe" (letteralmente "Il colore") è un film indipendente tedesco del 2010 ispirato a "Il colore venuto dallo spazio" di H. P. Lovecraft. A parte la variante geografica, che ambienta la vicenda nella campagna tedesca, e qualche libertà, il film diretto da Huan Vu è molto più fedele alla fonte letteraria di tanti altri adattamenti. Il racconto è articolato in tre atti che rimbalzano su altrettanti piani temporali. Subito prima il secondo conflitto mondiale. Subito dopo la fine della guerra, e quindi molti anni più tardi, dal punto di vista del figlio di un ex militare americano che di recente è tornato a visitare la Germania, dove aveva vissuto una strana esperienza, facendo perdere le sue tracce. La vera peculiarità del film è la scelta di lavorare in sottrazione. Nessun effetto speciale vero e proprio, nessuna mostruosità evidente e in piena luce, ma solo tanta suggestione. Né più né meno dell'irriferibile portato in scena dallo scrittore di Provvidence nei suoi racconti. Un altro aspetto importante di "Die Farbe" è quello di essere una pellicola in bianco e nero, dove l'unico colore è quello maligno venuto da un'altra dimensione. Qui ancora più alieno, in quanto unico colore presente nel film. Curiosamente, anche qui parliamo di una sfumatura di fucsia, come avrebbe scelto molto tempo dopo Richard Stanley per la sua recente versione. Peccato per l'uso di una CGI molto approssimativa in alcune scene di cui si sarebbe potuto fare a meno. Peccato per un uso forse non del tutto equilibrato del contrasto tra fotografia in bianco e nero e colore fuori contesto. Idea molto interessante, ma che forse poteva essere sfruttata meglio e in modo più ossessivo. "Die Farbe" è comunque un esperimento interessante. E se vi chiedete se è migliore del recente film di Richard Stanley... Non credo abbia senso paragonarli. Troppa distanza formale, intenzioni troppo diverse, con la sola base del racconto di Lovecraft che rende i due film lontani cugini. Ovviamente è inedito in Italia, e nel dvd mancano i sottotitoli nella nostra lingua. Questi sono comunque reperibili in rete, nei consueti modi esoterici.



mercoledì 11 marzo 2020

The Color Out of Space [di Richard Stanley]


"The Color Out of Space" rappresenta il ritorno di Richard Stanley alla regia di un lungometraggio dopo un periodo piuttosto lungo. Infatti, dopo le ottime prove di "Hardware" e "Dust Devil" (noto anche come "Demoniaca"), nella prima metà degli anni 90, il regista sudafricano aveva firmato soltanto corti, documentari e brevi episodi in film antologici. Nel 1996 avrebbe dovuto dirigere "L'isola perduta", ma la sua visione personale e l'ingombrante presenza della star Marlon Brando, causarono il suo allontanamento dal progetto che fu portato a termine da John Frankenheimer. Un peccato, considerato il valore dei suoi primi film. Opere di genere horror baciate da una sensibilità autoriale e una capacità evocativa visionaria, in cui scenografie, fotografia e colore danno vita a sogni lucidi inquietanti e di grande impatto sulla memoria. "The Color Out of Space", del 2019, è quindi un film di una certa importanza. Che somma il ritorno in scena di un regista che ha tanto da dire (e che lo dice in modo personalissimo) con un nuovo approccio alla narrativa di H. P. Lovecraft, ritenuto (e non a torto) uno degli scrittori horror meno filmabili per via della sua particolare poetica, fatta di orrori suggeriti e sempre collocati oltre l'immaginazione umana. "Il Colore venuto dallo Spazio" è peraltro uno dei racconti più noti e adattati di Lovecraft. La sua prima versione cinematografica risale al 1965 e al film "Die, Monster, Die!" di Daniel Haller, che in italiano diventa "La morte dall'occhio di cristallo" e vede come protagonista il mitico Boris Karloff. Da allora, la vicenda dell'entità extraterrestre che giunge in una zona boscosa della terra all'interno di un meteorite e che si manifesta come un colore inesistente nel nostro piano di realtà, dotato di una volontà maligna che ridefinisce il mondo intorno a sé secondo uno schema alieno e incomprensibile, mutando cose e corpi, è stata più volte ridotta per lo schermo. Raramente in modo efficace. E già, parliamo sempre del non adattabile Lovecraft. Diciamo anche che il titolo italiano del racconto forse non rende giustizia all'idea del suo autore. "The Color Out the Space" è un "colore fuori dello spazio" più che "venuto dallo spazio". Qualcosa di indefinibile e inqualificabile. Un elemento portatore di caos che azzera le norme e stravolge spazio e tempo, infettando ambiente, menti e corpi. Nel racconto il colore non appartiene a nessuna tavolozza, non è descrivibile nella sua alienità, e ovviamente questo non può essere reso al di fuori della rappresentazione letteraria. Richard Stanley, che aveva già dato prova di notevoli suggestioni oniriche con "Dust Devil" (di cui consiglio il recupero della versione Director's Cut con il titolo originale), sceglie per questa tinta aliena una sfumatura di fucsia iridescente (neanche a farlo apposta, un colore che io detesto). Caldo, ma nello stesso tempo morboso. E lo rende centrale e malevolo con la sua crescente onnipresenza a mano a mano che il film va avanti. Non c'è molto da raccontare, in quanto l'opera di Lovecraft, come abbiamo detto, è ampiamente nota e sfruttata. Quello da considerare, dunque, non è tanto il racconto e il suo progredire (che oggi chiunque può facilmente prevedere) quanto la personale visione scenica di Stanley, che la racconta con un ritmo dapprima rilassato e poi sempre più convulso, mentre le sue invenzioni cromatiche divampano e il body horror che si è già fatto interprete degli orrori lovecraftiani su schermo nelle opere di Stuart Gordon e Brian Yuzna si manifesta in tutto il suo disgustoso splendore. E poi... già! Poi c'è Nicolas Cage. In realtà non c'è solo lui. C'è Joely Richardson, protagonista di almeno due scene che mi hanno fatto saltare i nervi. E Madeleine Arthur, veramente brava e intensa. Ma ci si aspetta di sentir parlare di Cage. Nicolas Cage è praticamente diventato il caprio espiatorio di una quantità di film di genere. Per osmosi, sembra che il povero Nicolas sia ormai identificato con il marchio di infamia che definirà un film come pessimo. Quasi come se le sue scelte, la sua stessa presenza, abbiano la stessa caratteristica nefasta del "colore fuori dello spazio". Quella di guastare e trasformare tutto ciò che tocca in qualcosa di indescrivibile nel suo orrore. Beh, non è vero, dai. Nel film di Stanley, Cage è del tutto funzionale al racconto. Ci sarà, nell'ultima parte del film, un momento in cui lo vedremo andare fuori di testa (ma vorrei vedere chiunque in quella situazione) e fare le sue smorfie. Ma mi domando se il regista non lo ha scelto proprio per questo. Per rappresentare la progressiva marcescenza mentale e la trasformazione di un individuo posato e mite in qualcosa di grottesco e privo di senso. Come molti oggi vedono Nicola Cage, dopotutto. Insomma, "The Color Out of Space" è un felice ritorno per Richard Stanley. Potrà non colpire particolarmente, in quanto narra una storia già vista ormai mille volte (anche in numerose varianti del tema), ma dimostra che la poetica visiva del regista è ancora viva e vitale. E il suo progetto di realizzare una trilogia basata sull'immaginario di H.P. Lovecraft non può che ispirarmi un'interessata attesa.

mercoledì 8 gennaio 2020

Dracula di Moffat e Gatiss... è davvero da buttare?

Non si può negare che il "Dracula" realizzato da Steven Moffat e Mark Gatiss per Netflix abbia dei problemi. Li ha. E' un prodotto molto imperfetto. E per parlarne si deve partire da questo dato di fatto. Tuttavia, non mi trovo d'accordo con i pareri che lo bocciano in modo totale, in qualche caso con ferocia, e senza nessuna possibilità di appello. Si è usata molto la parola "trash", vocabolo entrato nell'uso comune senza restrizioni di sorta, e spesso applicato a qualunque cosa si giudichi semplicemente brutta, ma chissà perché nobilitandola con il ricorso a un vocabolo anglofono che a volte è stato usato anche per dire "spazzatura sì... ma nella quale ci piace rotolarci come porcelli". Credo (e il caso di questo Dracula di Moffat e Gatiss non è un'eccezione) che la parola "trash" sia spesso confusa concettualmente con la parola "kitsch". Anche kitsch, parola di origine tedesca dall'etimo incerto, presenta ambiguità. E' riferita generalmente al cattivo gusto, ma anche a determinate produzioni artistiche che fanno dell'eccesso la propria cifra stilistica. In qualche caso, kitsch diventa anche sinonimo di "sopra le righe" e di gusto per l'esagerazione. Tutti ingredienti che a seconda del contesto possono essere valutati negativamente o positivamente, a seconda anche dell'orientamento culturale e del gusto.

Tornando al Dracula di Moffat e Gatiss... E' vero. La scrittura è diseguale, e la miniserie in tre parti traccia una parabola discendente in cui la qualità (ma sarebbe meglio dire l'ispirazione degli autori) va scemando, fino a una scelta estetica e narrativa che non mantiene le promesse e va incontro alla conclusione in un modo che avrebbe potuto fare a meno dello scenario scelto, rendendolo in questo modo forzato e praticamente inutile.
Questo non esclude che la miniserie possa essere fruita con divertimento. Amo troppo il romanzo di Bram Stoker e ho visto troppe riletture del suo personaggio centrale per essere spietato nei confronti di questa nuova versione, che in fondo qualche cartuccia da sparare dimostra di averla. Di Dracula abbiamo visto rivisitazioni in chiavi molto disparate, serie, semiserie, decisamente parodistiche. La lettura grottesca, ma anche elegantissima di Roman Polansky in "Per favore non mordermi sul collo". Quella romantica e psichedelica di John Badham con Frank Langella nel ruolo del conte, ispirata a un dramma teatrale, e che ricalca (ma solo in parte) la versione storica di Todd Browning in cui Bela Lugosi incarnava Dracula. Il Dracula amante tormentato interpretato da Jack Palance ne "Il demone nero", e il Dracula villain fortissimo e belluino di Christopher Lee, un conte vampiro che abbiamo visto muovere anche in ambientazioni metropolitane moderne (con risultati non memorabili, è il caso di dirlo). Il Dracula antologico, polimorfo ed estetizzante di Coppola. Abbiamo avuto anche la miniserie italo-tedesca "Il bacio di Dracula" in cui Peter Bergen impersonava una versione del conte vampiro ambigua e volta alla seduzione omosessuale. Insomma, Dracula è un canovaccio, un codice palinsesto sul quale si è scritto e rappresentato di tutto. La "ditta" Gatiss e Moffat, è a sua volta un brand che ha fatto della revisione e della trasgressione il suo marchio di fabbrica. Prendere classici della letteratura e farne delle fantasie moderne (non necessariamente per ambientazione), mantenendo soltanto alcuni punti fermi iconici per poi rimodellare il tutto secondo una concezione pop, irrorata da abbondante humor nero britannico. Non è una ricetta perfetta. Anzi, non è neppure una ricetta, visto che gli approcci ai vari classici sono anche molto diversi tra loro. Ma il gioco, anche solo il tentativo, può essere divertente. Qualcuno ricorderà "Jekill", miniserie firmata anni fa dal solo Steven Moffat, in cui si rileggeva in chiave inedita il classico di Robert Louis Stevenson. Ebbene: "Jekill" era indubbiamente molto più riuscito di questo "Dracula". Ma la festa a cui siamo invitati è la stessa. Una fantasia, anzi una variazione sul tema, che prende direzioni impreviste. Con "Dracula" l'esperimento riesce a metà. E' il caso di dirlo. Il primo episodio introduce numerose varianti, ma seguendo di base gli spunti del romanzo di Stoker. Il secondo imbocca praticamente la stessa via, ma aumentando le trasgressioni e le rivisitazioni, e potrebbe in buona parte funzionare. Ma già nel finale qualcosa si inceppa, e ci lascia intuire che il progetto, interessante, sta per arenarsi. L'ultima, controversa puntata (la più debole delle tre, inutile girarci intorno) fallisce il climax del racconto, e svela le sue ultime carte in un contesto forzato. L'introduzione del personaggio di Lucy appare più che altro una citazione voluta, ma anche una lungaggine a quel punto evitabile. Certe scelte dei personaggi, una in particolare, risultano immotivate e inspiegabili. Il cambio di scenario (non un peccato in sé) azzoppa il gioco fino a quel punto abbastanza divertente, e risulta voluto, quasi stucchevole. Evitabile. Ed è un peccato, perché la risoluzione finale, il disvelamento di questa ennesima interpretazione del mito di Dracula e della sua essenza era interessante. Se condotto con il giusto climax avrebbe potuto spaccare, ma la ricerca dell'eccesso e del cambiamento continuo di registro penalizza tutto. Una conduzione più aderente agli atti del romanzo di Stoker, forse, avrebbe giovato di più. La sterzata invece porta la miniserie a sbattere, e infrange quanto c'era di buono e divertente.


Questo non significa che "Dracula" di Moffat e Gatiss sia un prodotto da cestinare. Ho letto critiche che definiscono il protagonista, l'attore danese Claes Bang privo del carisma necessario e lontano dal ruolo che gli è stato assegnato. Non sono d'accordo neppure su questo. Bang fa un lavoro del tutto diligente e in sintonia con il clima in cui il protagonista è stato inserito. Un Dracula aristocratico (con sprazzi della bestialità che caratterizzava Christopher Lee) che lascia trasparire gli atteggiamenti di un moderno serial killer in pieno delirio di onnipotenza. L'elemento del fattore "Zelig" legato al consumo del sangue è interessante. Van Helsing in versione suora atea e cinica, inoltre, l'ho trovato uno dei punti di maggiore simpatia della miniserie. Non solo un cambio di genere del personaggio, ma una variante complessa, che introduce anche un inedito rapporto tra i due antagonisti.
In definitiva... sì e no. Luci e ombre. Dolce e amaro. Non farei cadere la mannaia su questa miniserie, incompiuta, non del tutto riuscita. Senza promuoverla a must, ma neppure condannandola alla discarica.



sabato 4 gennaio 2020

Scream: Resurrection (ma anche no)


Se dovessi esprimere un parere molto sintetico sulla terza stagione (definita reboot, e uscita con il titolo "Scream: Resurrection") di "Scream" (la serie televisiva), basterebbero due parole: cattiva scrittura.
Le prime due stagioni, con il suo cast e le sue sottotrame, mi avevano molto divertito pur con tutte le imperfezioni del caso. Questo reboot appare come una copia sbiadita di tutto quello che aveva funzionato nella produzione televisiva ispirata alla saga cinematografica firmata da Wes Craven. Non basta l'annunciata reintroduzione della "maschera originale" di Ghostface (sticazzi!). Serve giusto a ricordarci quanto siano superficiali i dettagli su cui puntano queste produzioni. Nelle prime due stagioni, che facevano della maschera del killer la protesi facciale di Brandon James, personaggio chiave che innescava la maledizione del serial killer, trovavo la scelta di variare azzeccata e anche abbastanza inquietante. Qua torniamo all'iconografia cinematografica, ma tutto il resto è molto approssimativo. La serie si fa seguire in virtù del fatto che è molto breve (soltanto sei episodi) e per la voglia di scoprire l'identità dell'assassino (Scream non è uno slasher qualunque, ma anche un "whodunit?"). I personaggi cui mi ero affezionato, però, non ci sono più. Quelli nuovi sono decisamente scialbi, fatti solo per cadere sotto la lama (o la sega, o la fiocina o fate voi) del killer. Ma soprattutto la sceneggiatura è confusa da morire e certe situazioni risultano incomprensibili. Non mi riferisco ai meccanismi del giallo. In tanti confondono "Scream" con un vero racconto di indagine, ed è un grosso errore. "Scream" è un horror, anche se sfrutta la componente mistery sull'identità dell'assassino. E il killer, finché rimane misterioso, ha la valenza di un demone onnipotente, onniscente e ubiquo, che si sposta, appare e scompare come un essere soprannaturale. Ma al di là di queste regole di genere, la storia che fa da innesco è troppo debole. Alcuni passaggi richiedono allo spettatore di sostituirsi allo sceneggiatore per darsi risposte, e questo non va bene. Qualche scena gore inaspettata fornisce intrattenimento ai fans, ma la qualità delle prime due stagioni è lontana. Del resto... dopo quattro film diretti dal maestro e due stagioni di serie TV, era davvero una pretesa andare avanti.

martedì 10 dicembre 2019

Train to Busan, di Yeon Sang-Ho


"Train to Busan" è uno zombi-movie sud coreano diretto nel 2016 da Yeon Sang-ho, e grosso successo in Asia, tanto da generare immediatamente un prequel animato (diretto dallo stesso regista e incluso nella versione home video uscita anche in Italia) e un sequel, che dovrebbe uscire nell'ormai vicino 2020. Il film di Yeon Sang-ho gestisce un plot abusatissimo con un mestiere inattaccabile. Un'epidemia zombi si scatena per cause vaghe e irrilevanti (come sempre), ma la storia che noi seguiremo sarà il destino dei passeggeri di un treno diretto a Busan. Treno su cui è appena salita una persona che ha contratto il mostruoso contagio che presto dilagherà sul treno in corsa, trasformandolo in un inferno su ruote. Gli zombi di questa versione appartengono alla tradizione velocista. Sono snodati, feroci, tarantolati, e il loro numero cresce con una velocità impressionante (la trasmissione e il decorso del virus sono rapidissimi). Presto diventano un'orda simile a cavallette fameliche, e per un giovane manager, che sta accompagnando la figlioletta in visita dalla madre da cui sta divorziando, sarà l'inizio di un'odissea insanguinata, mentre il treno viaggia verso quella che (forse) è l'ultima stazione sicura. Lo svolgimento della trama sarebbe da manuale. Ma le modalità con cui tutto ci viene raccontato sono impeccabili. "Train to Busan" non dà tregua. E' una corsa a perdifiato tra le varie carrozze, una più insidiosa dell'altra, e una carrellata di personaggi caratterizzati, dei quali per una volta ci preoccupiamo per davvero. Non manca un pizzico di melodramma molto orientale. E alla fine del film ci sentiamo spossati. Una sorpresa da non farsi sfuggire.